sabato 5 dicembre 2009

BREVE SAGGIO INTRODUTTIVO. PRIMA PARTE

PREMESSA


Il Partito democratico non ha risolto i suoi problemi con le primarie del 25 ottobre, di questo sono sicuro.

Circa tre milioni di italiani si sono recati nei seggi allestiti dai militanti democratici in tutta la penisola. E’ stato un bene per l’Italia, oltre che per il partito. Per la democrazia italiana, che ha bisogno di una grande forza di opposizione, che vive grazie alla partecipazione di milioni di cittadini.

Con le primarie del 25, il PD ha eletto una leadership forte e autorevole, legittimata dal voto popolare, in grado di costruire un’opposizione più incisiva e di parlare al Paese.

I problemi che hanno travagliato la nascita e i primi anni di vita del partito, tuttavia, sono tutti lì, irrisolti, di fronte a noi.

La nascita e la formazione del Partito Democratico è stato un processo politico senza precedenti, non solo nella storia italiana, ma sicuramente anche in quella europea. Non era la prima volta nella storia che due partiti, i Democratici di Sinistra eredi del Partito Comunista Italiano (con l’integrazione di altre componenti di provenienza socialista, repubblicana, cristiano-sociale) e la Margherita erede della Sinistra Democristiana e dei Popolari (anche qui, con integrazione di altre componenti: Rutelli, liberaldemocratici, ecc.), si fondevano per costituire un nuovo partito. Era la prima volta, però, che ciò accadeva con la partecipazione diretta di milioni di persone, che il 14 ottobre 2007 avevano eletto leader del partito l’ex Sindaco di Roma Walter Veltroni.

La gestazione era stata lunga e travagliata. L’idea era stata di Romano Prodi, lanciata con il Manifesto per le elezioni europee del 2004.

Certo, in molti fanno risalire la genesi del PD all’Ulivo del 1996. E’ una delle questioni più discusse, che periodicamente ritornano. In realtà, L’Ulivo era qualcosa di profondamente diverso dal PD. Non solo perché era poco più di un cartello elettorale, che riuscì nel 1996 a vincere le elezioni grazie alla desistenza di Rifondazione Comunista, allora diretta da Fausto Bertinotti, e alla spaccatura tra centrodestra e Lega Nord. Era diverso, anche perché diversi erano i soggetti che lo componevano, molto più eterogenei e frammentati. Ci fu, non lo si può negare, chi fin da allora preconizzò e auspicò l’evoluzione dell’Ulivo in partito, tra questi per l’appunto Walter Veltroni e chi lo contrastò, in primo luogo Massimo D’Alema, allora Segretario del PDS. La verità è che quel cartello elettorale allora non poteva diventare partito, non c’erano le condizioni culturali e politiche.

La mancanza di omogeneità della coalizione e di una forza in grado di sostenere l’azione riformista del Governo fu causa del fallimento del primo Governo Prodi, venuta veno dopo il 1998 la spinta coesiva dell’obiettivo Euro, e poi della successiva sconfitta elettorale.

L’idea del Partito democratico nasce quindi, in effetti, dal fallimento dell’Ulivo, non da un suo naturale sviluppo.
Quando le forze del centrosinistra decidono, nel pieno dell’evidente crisi di consenso della seconda esperienza di Governo Berlusconi, di riproporre Romano Prodi come leader di una nuova coalizione, con Rifondazione Comunista questa volta pienamente partecipe, che si chiamerà Unione, si pone il problema di rafforzare la sua leadership con una nuova forza unitaria che ne sia espressione. Questa volta non come cartello, ma come vero e proprio partito che non può che nascere dall’unità dei riformismi, ossia dall’unione di chi abbia una visione condivisa del governo del Paese. E sarà un’altra elezione primaria a rendere irreversibile questo processo di aggregazione, dopo uno stop imposto dalla Margherita a ridosso delle elezioni regionali del 2005. Furono le prime elezioni sul modello delle primarie americane (nello spirito più che nella forma) ad essersi svolte in Italia, su base nazionale, in cui tutti gli elettori di centrosinistra, compresi quelli della sinistra radicale che sostennero la candidatura di Fausto Bertinotti, consacrarono Prodi come leader della nascente Unione. L’Ulivo quindi non c’era più. C’era l’Unione, alleanza elettorale comprensiva della presenza del Partito della Rifondazione Comunista e di tutta la sinistra radicale, e c’era il nascente partito riformista, la cui costituzione doveva incontrare ancora non pochi ostacoli.

Non ero all’inizio tra i più convinti. Allora ero giovane segretario provinciale dei DS.

Dopo una non lunga riflessione alla fine aderii. Confesso che, nei primissimi tempi, lo feci per senso di disciplina. Ricordo nei mesi estivi del 2003 le interviste di Prodi, D’Alema, Fassino, che acceleravano sul progetto del Partito Riformista, e che mi avevano disorientato. Dopo qualche settimana di dibattito, cominciarono tuttavia ad apparirmi evidenti le ragioni di fondo, che rendevano necessaria la scelta di superare l’esperienza dei Democratici di Sinistra e dare vita ad un Partito Nuovo. La prima ragione politica più immediata era la necessità di avere una forza capace di guidare con autorevolezza una coalizione, che si presentava ancora più eterogenea che nel ‘96. Ds e Margherita divisi, e con la conflittualità reciproca che li contraddistingueva, e che sperimentavo tutti i giorni sul territorio, non erano in grado di assicurare stabilità a quella alleanza arcobaleno che si profilava. La seconda ragione era che vedevo con tristezza il continuo logoramento e il carattere asfittico del Partito dei Ds, che nonostante gli sforzi titanici dell’allora Segretario Piero Fassino, non riusciva ad essere quella forza riformista popolare che avrebbe voluto essere. E poi devo dire che mi convinse molto il Manifesto per l’Europa di Romano Prodi, con cui l’ex Presidente del Consiglio ed ex Presidente della Commissione Europea, nonché prossimo candidato Premier dell’Unione, lanciava la lista unitaria dell’Ulivo per le elezioni europee, primo passo del nascituro partito. Quel documento mi convinceva. Unire gli europeisti, le forza che si battono per un’unità politica dell’Europa, che per me era e resta il grande progetto su cui le forze progressiste europee si dovrebbero impegnare per il futuro, superare le barriere tra laici e cattolici che condividono una visione democratica e solidale della società, erano obiettivi ambiziosi che mi affascinavano. Oggi, quelle ragioni, pure profonde, mi sembrano persino parziali. Non vedevo allora, e non potevo, che in realtà eravamo alle soglie di una profonda ulteriore trasformazione del mondo, di una crisi senza precedenti, che sconvolgeva completamente le categorie del passato, rendendo definitivamente inadeguate le tradizioni politiche del Novecento.

Il parto, come ho già detto, fu però travagliato. La lista Uniti nell’Ulivo, che allora comprendeva DS, Margherita e Socialisti Democratici Italiani di Boselli, alle elezioni europee ottenne uno straordinario risultato: fu votata da un terzo degli italiani, affermandosi nettamente come prima forza davanti a una Forza Italia in netto calo di consensi (il PDL era ben là da venire). Subito dopo le europee però Rutelli e Marini decidono lo stop. La Direzione Nazionale della Margherita delibera il no al progetto di un partito riformista, no alla riproposizione della lista unitaria alle elezioni regionali del 2005, che alla fine fu comunque presentata ma solo in alcune regioni.
Il centrosinistra ottenne comunque una vittoria assai larga in dieci regioni su quindici, tenendo così in piedi la leadership di Prodi, seppure indebolita dal venir meno del suo progetto del partito dell’Ulivo.
Il Partito unico fu sostituito dalla fantomatica Fed e nacque così anche l’idea, come surrogato del partito riformista per la legittimazione della leadership prodiana., delle primarie dell’Unione, in cui Prodi si confrontò con Bertinotti, Pecoraro Scanio e qualche altro candidato di bandiera. Fu lo straordinario successo di questo esperimento, con la partecipazione inattesa di milioni di cittadini nella domenica del 14 ottobre 2005, a rilanciare il progetto. Che tuttavia continuò ad incontrare resistenze, ostacoli, ritardi. Lo Sdi di Boselli intanto decise di uscirne e di riprendere il doloroso cammino della diaspora socialista. La Margherita, ancora sospettosa e ossessionata dall’idea di contarsi per non essere assorbita dai DS, impose che per le prossime elezioni politiche del 2006, dove la vittoria del centrosinistra si annunciava scontata e netta, la lista unitaria dell’Ulivo fosse presente soltanto nelle circoscrizioni della Camera dei Deputati e non su quelle del Senato della Repubblica.

Come i fatti sono andati poi è noto. La vittoria dell’Unione fu assai risicata, soprattutto al Senato in cui la coalizione era priva di una maggioranza numerica certa. Forse, con una lista dell’Ulivo che alla Camera prese circa 4 punti in più della somma di DS e Margherita al Senato, le cose sarebbero andate diversamente, ma la storia si è soliti dire con un luogo comune non si fa con i se.

Il nuovo Governo Prodi cominciò la sua convulsa e stentata esistenza, prigioniero di una coalizione frammentata e litigiosa, mentre il progetto del Partito Democratico, come lo si cominciò a denominare, fu affidato ai tempi lunghi e del resto inevitabili dei Congressi dei partiti fondatori.

La celebrazione dei congressi, per partiti che facciano della democrazia una regola di vita anche interna, era un momento necessario oltre che opportuno, ma probabilmente era tutto il processo che doveva essere avviato prima, e concluso prima delle elezioni politiche. Se è vero come è vero che la prima motivazione immediata, che stava alla base della volontà di costituire il nuovo partito, era conferire stabilità e forza al Governo di centrosinistra, che sarebbe nato dopo la seconda sconfitta di Berlusconi.

Non voglio ora qui ripercorrere tutta la storia tormentata dell’ultimo Governo Prodi, il mio intento in queste pagine iniziali è solo ricordare le tappe essenziali che portano alla nascita del Partito Democratico, per evidenziare, anche ai lettori meno attenti alle vicende politiche, le ragioni delle sue difficoltà presenti e individuare le sue “chance” future.
Credo tuttavia a questo punto di dover introdurre una riflessione forse troppo trascurata dagli analisti e dai leader del centrosinistra sulla vitalità della destra berlusconiana, sulla sua forza nel Paese, senza di cui non si colgono fino in fondo le ragioni delle contraddizioni del centrosinistra e della sua sconfitta, e si finisce col pensare che tutto sia attribuibile agli errori e alle incapacità dei suoi gruppi dirigenti, che pure hanno pesanti responsabilità (compresa quella di non aver capito le ragioni della forza di Berlusconi e averlo sottovalutato sul piano politico).

Berlusconi, che al termine dell’esperienza fallimentare del suo secondo governo era dato per politicamente morto, è riuscito a trasformare la sconfitta del 2006 in una sua vittoria. In primo luogo, c’è da sottolineare l’abilità e la spregiudicatezza con cui all’ultimo momento utile, al termine della legislatura, detenendo ancora la maggioranza parlamentare aveva saputo modificare la legge elettorale nella direzione a lui più favorevole, per minimizzare il vantaggio della coalizione avversaria che con un sistema maggioritario uninominale avrebbe sicuramente trasformato il suo consenso in un numero maggiore di seggi parlamentari. In secondo luogo, si è reso protagonista di una straordinaria rimonta elettorale, riuscendo ancora una volta ad estremizzare il confronto e trasformarlo in un referendum per scegliere tra lui e i “comunisti”, ciò anche grazie al controllo dei mezzi di comunicazione di cui dispone. Tra le varie cretinerie che in questi anni si sono diffuse nella politologia d’accatto italiana e subite dalla sinistra c’è l’idea che il controllo dei mass media non sia decisivo… certo l’influenza delle televisioni non è decisiva per tutti gli strati sociali, non lo è per gli intellettuali che scrivono sui giornali, non lo è per i ceti più istruiti, ma lo è per quelle ampie fasce “teledipendenti” che poi determinano il risultato finale e che furono quelle che, sfiduciate dai risultati del suo Governo, per l’appunto Berlusconi riuscì tuttavia con la sua potenza mediatica a mobilitare e a riportare al voto; l’affluenza alle urne fu, infatti, straordinaria, vicina al 90%. Certo, non basta controllare i mezzi di comunicazione, bisogna anche saperli usare, ed in ciò Berlusconi riesce quasi sempre alla perfezione, e così fu in quella campagna elettorale, dove riuscì ad individuare i temi su cui trascinare al voto il suo elettorato: la sicurezza e le tasse sopra ogni altro, e capitalizzarli con rendimento a breve sul consenso.
In terzo luogo, subito dopo le elezioni, porta fino in fondo la resa dei conti sulla leadership nella sua alleanza, stringendo l’asse con Bossi e soprattutto, prendendo spunto dal progetto del Partito democratico, con la costituzione “dal basso” del partito unico del centrodestra.

Abbiamo molto ironizzato a sinistra, e continuiamo a farlo, sul modo con cui Berlusconi è arrivato a costituire il Partito del Popolo delle Libertà. Sta di fatto che quel partito ha avuto un grado di omogeneità interna, di coesione, capacità espansiva e certezza della leadership superiore al Partito Democratico, che le vicende giudiziarie e il dualismo con Fini solo in parte ha incrinato. E quindi bisogna chiedersi il perché. Provo a farlo in breve. Intanto, quando Berlusconi ripete che il suo partito è nato dal basso e non è stato frutto di un’operazione verticistica come il PD dice la verità. E’ così. Nonostante le nostre primarie. Ovviamente, in tutte le operazioni politiche, soprattutto nella fondazione di un partito nuovo, c’è una componente importante di verticismo così come di “spontaneismo”. Le primarie del PD sono state comunque un processo mediato e filtrato dai gruppi dirigenti che selezionano le candidature, elaborano le proposte e i temi del dibattito, scelgono le procedure, ecc. quindi c’è stata una direzione dall’alto così come c’è stata nel metodo plebiscitario con cui Berlusconi ha costruito il PDL. Con la differenza che la leadership di Berlusconi era ed è tuttora, nonostante le crescenti difficoltà legate più a fatti personali che a questioni politiche, assai più popolare di quella di qualsiasi altro leader politico, senza bisogna di alcuna ulteriore legittimazione da parte delle primarie. Certo la sua popolarità ha avuto alti e bassi. Ci sono stati leader, nella fattispecie Fini da un lato e Veltroni dall’altro, che sono stati altrettanto se non più popolari in alcune fasi. Ma nessuna ha un’adesione popolare spontanea duratura come l’ha avuta Berlusconi. Nessuno la sua capacità di apparire estraneo al ceto politico, nonostante ne sia membro a pieno titolo da 15 anni e abbia relazioni strette con esso da decenni, senza di cui non avrebbe mai costruito il suo impero mediatico ed economico; ceto politico verso cui il popolo italiano, antipolitico da sempre, nutre un crescente disprezzo, tanto maggiore, quanto più ci si rispecchia nelle frustrazioni, proprie di una società sempre più frammentata e divisa.

Ciò in virtù sempre del suo controllo ed uso dei media e soprattutto della sua capacità di rappresentare e dare voce alle pulsioni profonde del Paese.
E nessuno a parte lui ha la possibilità di trasformare il suo consenso popolare direttamente in partito, in un partito fatto a sua immagine, che coincide con la sua persona ed il suo carisma. Ed è facendo leva su questa forza che Berlusconi promuove il partito unico del centrodestra, bypassando non solo i gruppi dirigenti dei partiti suoi alleati, Casini che sceglierà di restare fuori prima dal PDL e poi dall’alleanza, e Fini costretto a partecipare alle “comiche finali” e subire l’iniziativa berlusconiana in posizione di subalternità, ma anche del suo partito-azienda. Lo fa promuovendo una nuova “classe” di dirigenti giovani dal basso, attraverso i circoli, diversi e tra loro in competizione, della Brambilla e di Dell’Utri. Non si è fatta nessuna analisi e nessuno studio sui Circoli della libertà e su quelli del Buon Governo, sul loro apporto alla nascita del PDL, e sul tipo di dirigenti che quelle esperienze hanno prodotto. Eppure sarebbe interessante per capire la natura del nuovo partito, e di come esso sia nato concretamente dal basso, promovendo una nuova leva proveniente dai ceti sociali più “berlusconizzati”: piccoli imprenditori, professionisti, giovani del ceto medio in cerca di successo immediato, aspiranti veline con tanto di titolo di laurea, ecc. Berlusconi non ha bisogno delle primarie, per queste ragioni. E può rapportarsi direttamente con il suo popolo, infischiandosene della mediazione dei gruppi dirigenti dei partiti, “litigiosi” per definizione, ed anzi strumentalizzando ed piegando ai suoi scopi le loro rivalità. Il contrario di quel che accade ai leader del centrosinistra e del PD, che hanno bisogno delle primarie per legittimarsi per essere dal giorno dopo logorati dalla rissa continua nel cortile di casa.

L’altra ragione è che l’indiscutibilità della leadership e la sua forza rendono molto più disciplinata e compatta la classe dirigente del PDL. Berlusconi controlla in modo militare il suo partito, secondo il più ferreo dei centralismi democratici. La mancanza di litigiosità e persino di qualsiasi dissenso portato in pubblico, lungi dall’essere un disvalore agli occhi dell’opinione pubblica, rappresentano al contrario un valore aggiunto, una garanzia di affidabilità verso gli elettori. Oggi troppo sbrigativamente si comincia a discutere delle debolezze del PDL, Il Riformista ha parlato di “amalgama mal riuscito”, citando un giudizio di D’Alema a proposito del PD. E’ presto tuttavia per poter dire che il PDL va verso una crisi irreversibile, il dato oggi è quello di una permanente forza della leadership berlusconiana.

Infine, Berlusconi rappresenta l’italiano medio, il suo senso comune, le sue paure e i suoi desideri, che in parte sono stati creati e plasmati dalle tv Mediaset, ed esercita pertanto un’egemonia culturale indiscussa in un Paese sempre più individualista e cinico. Non è nuova questa analisi, e non sono il primo a farla. Anche da parte dei gruppi dirigenti del centrosinistra è stata fatta più volte nel corso degli anni. Ciò che invece è sempre mancata è la consapevolezza di una strategia adeguata di contrasto, su cui tornerò, che secondo me avrebbe dovuto aggredire i seguenti punti: una riforma che liberalizzasse il sistema televisivo, rompendo quel duopolio Rai - Mediaset, che consente al leader del PDL di controllare quando va bene metà delle televisioni, quando va male, cioè quando è a capo del governo, la quasi totalità di esse; una profonda riforma della scuola, che ne facesse il principale organismo di diffusione nel Paese di una cultura solidale, moderna, laica, non faziosa, democratica; la costruzione di un partito riformista, che sta appunto alla base del progetto del PD, realmente popolare, di massa se mi è consentita un’espressione desueta, così come è possibile nella società di oggi, e quindi non certo con le tradizionali e gloriose sezioni, che pure sono state importanti in passato. Questioni che il centrosinistra, nei primi due casi, non ha saputo affrontare e portare a termine; nel terzo lo ha fatto con ritardo e con le difficoltà risapute.

In questo contesto, di estrema fragilità e impopolarità del Governo dell’Unione e di riorganizzazione della destra berlusconiana nella società, c’è l’accelerazione della fondazione del Partito Democratico. La successione dei fatti è decisiva per capire cos’è che accade nel centrosinistra e per smontare definitivamente l’accusa verso il PD e verso il suo leader Veltroni di aver determinato più o meno volontariamente la caduta del Governo. Prodi ed il suo Governo sono al massimo di impopolarità. Il centrosinistra subisce nelle elezioni amministrative del 2007 una batosta senza precedenti, anche le liste dell’Ulivo, dove presentate, registrano un grave arretramento di consensi.
Il Governo unionista è a rischio permanente di crisi definitiva, e c’è il pericolo che ciò determini anche l’aborto del nascituro PD. Per questa ragione, si accelera il processo, stabilendo di far nascere il PD con l’elezione mediante primarie del suo leader nel mese di ottobre, e si chiede al Sindaco di Roma di rendersi disponibile, candidandosi.

Walter Veltroni è in quel momento il leader più amato dall’opinione pubblica, non solo del centrosinistra, superando nei sondaggi anche Fini e Berlusconi. Da tempo se ne parla come prossimo candidato premier. Come ipotesi però di là da venire. Agli inizi il sindaco in carica della Capitale non sembra intenzionato a mettersi in gioco per la leadership del partito. Di fronte però alla crisi verticale di consensi del Governo e della nuova forza riformista, sull’orlo del baratro prima ancora di nascere, il pressing si fa insistente, tutti sono concordi, da Fassino a D’Alema, da Marini a Rutelli, che è l’unica personalità in grado di riunificare le diverse anime del nascituro partito e rilanciarne le sorti.

Veltroni accettò la candidatura alla leadership del Partito Democratico, e lo fece con un discorso di grande efficacia, pronunciato al Lingotto di Torino, che ebbe subito l’effetto di far crescere l’entusiasmo e le speranze di un popolo progressista disorientato e deluso e di ridare fiato e consenso, registrato immediatamente dai sondaggi, al progetto democratico.

Il discorso del Lingotto resta a mio avviso un caposaldo, che descrive con efficacia ineguagliata identità, profilo, ragioni di essere del Partito Democratico. L’idea di riunire e riconciliare il Paese. La riforma del sistema politico in direzione di un bipolarismo maturo, fondato sulla reciproca legittimazione degli schieramenti avversari, tra destra e sinistra. La modernizzazione dell’Italia che passa per la riconversione ecologica e per una ripresa della mobilità in una società troppo chiusa e diseguale. La lotta alla precarietà del lavoro come grande questione sociale attuale. Il patto tra generazioni come leva per riformare lo Stato sociale. Il cambio di approccio da parte della sinistra alla questione fiscale, non più punitivo verso i ceti medi, e nel rapporto con il mondo delle imprese, in specie medio - piccole.
Erano i pilastri, individuati con grande chiarezza, dell’agenda di cui aveva bisogno una forza riformista moderna per ricominciare a parlare alla maggioranza degli italiani, ad un Paese cui Berlusconi si limitava a lisciare il pelo, ma che aveva bisogno di cambiare profondamente per ricominciare a correre.
Con alcuni punti deboli: in primo luogo, l’assenza di un riferimento alla centralità della questione europea.

Veltroni diventa segretario del PD, con le primarie del 14 ottobre 2007 che vedono la partecipazione di 5 milioni di italiani.

La nascita del PD accelera, e non poteva essere diversamente, la crisi di una maggioranza che non sta più in piedi e che non era più in grado, prima ancora che Veltroni diventasse segretario, di governare il Paese efficacemente.

Romano Prodi spreca anche l’ultima chance di sopravvivenza del Governo, che ha ottenuto la fiducia della Camera, rifiutandosi di restituire il mandato al Presidente della Repubblica, come da questi consigliatogli, senza andare al voto del Senato.

E così, ci si reca alle urne. Con Veltroni candidato del PD alla premiership, contro Berlusconi. Una missione impossibile. E il leader del PD fa l’unica cosa che poteva essere fatta per sparigliare: sceglie di rinunciare alla coalizione larga. Il PD andrà da solo, con l’IDV, costola del PD (il partito di Di Pietro è nato da una scissione della Margherita, in molti lo dimenticano), unico alleato.

Con questa scelta, il PD si rende protagonista dell’unica riforma vera del sistema politico italiano degli ultimi 15 anni, dopo l’introduzione del maggioritario nel 1994, con la differenza che questa volta è la volontà dei soggetti politici, dei partiti, a determinarla, e non una modifica legislativa per via referendaria. Finisce la stagione delle coalizioni larghe e rissose, comincia quella di un bipolarismo maturo. Berlusconi è costretto a rincorrere, ed adeguarsi. An e Lega colgono la palla al balzo per liberarsi di Casini, è Fini a farsi interprete di questa esigenza, ponendo la condizione che tutte le forze dell’ex Casa delle Libertà convergano nel partito unico, fatta eccezione per la forza “regionalista” di Bossi. L’UDC non accetta e correrà sola alle elezioni.

Per una volta, è il centrosinistra ad imporre la sua agenda alla destra, se non che il paradosso è che questa si rivela più preparata della prima ad affrontare il nuovo scenario. La destra è più compatta e coesa, Berlusconi riesce ad unificare nel PDL anche le varie forze minori della coalizione, mentre il centrosinistra, uscito dilaniato dall’esperienza di governo si spacca. Le varie componenti della sinistra radicale si presenteranno in ordine sparso alle elezioni, non riuscendo a superare la soglia di sbarramento per accedere ai seggi parlamentari, la stessa scelta suicida verrà compiuta anche dai socialisti di Boselli.

Il PD guidato da Veltroni farà una campagna elettorale circondata dall’entusiasmo dei suoi militanti ed elettori, in molti si illuderanno di una rimonta, che in realtà c’è ma è insufficiente non solo a rovesciare il risultato, ma anche ad evitare una sconfitta netta e di ampie dimensioni. Perché il punto di partenza è troppo basso. Il PD otterrà risultati lusinghieri nei grandi centri urbani e persino in alcune zone del nordest, a dimostrazione che il messaggio veltroniano riesce a “sfondare” nei ceti più dinamici, ma non nell’Italia profonda.

Ho cercato di ricostruire in breve ma con puntualità i fatti. Non per difendere la leadership veltroniana e le sue scelte, che pure ha avuto meriti innegabili nel consentire la nascita del partito, ma perché siano chiare le ragioni di una sconfitta, su cui i democratici italiani, avendo ormai perso l’abitudine a dibattiti veri e basati su analisi scientifiche della realtà e dei dati, non hanno ancora riflettuto sufficientemente a distanza di 18 mesi.

La sconfitta del 2008 è eredità principale del fallimento del Governo Prodi. Il centrosinistra paga le sue divisioni ed i suoi errori. Da ultimo, quello di non aver utilizzato l’ultima manovra finanziaria per una consistente opera di redistribuzione del reddito, a favore di salari, stipendi e pensioni, essendo prevalsa la linea rigorista di Padoa Schioppa, Ministro dell’Economia. C’erano tutte le ragioni per farlo, già cominciavano a spirare i venti della crisi, anche se la maggioranza degli economisti ortodossi non se ne rendeva conto, ed in Italia ormai da tempo c’erano un enorme problema riguardante il potere d’acquisto sempre più ridotto dei ceti medi e bassi. Una scelta di questo tipo avrebbe consentito al Governo di recuperare consenso tra le fasce popolari, ormai in caduta libera da mesi, ancora prima della fondazione del PD. Bastava viaggiare su qualche autobus, o in metropolitana, e ascoltare le conversazioni della gente comune, come mi capitò personalmente in più di un’occasione, per rendersene conto. Che queste furono le cause della sconfitta, lo dimostrò il risultato elettorale catastrofico delle forze alla sinistra del PD. Il centrosinistra nel suo complesso era stato punito per le sue risse e per non aver fatto una politica a favore dell’elettorato più popolare. E l’innovazione del PD soltanto in parte riuscì a contenere una sconfitta, che poteva essere ancora più rovinosa.

Il resto è cronaca recentissima. La segreteria di Veltroni dopo la sconfitta alle elezioni politiche, e dopo aver perso anche l’Amministrazione di Roma, avrà vita travagliata fino alle sue dimissioni, travolta dagli scandali giudiziari che vedranno coinvolti amministratori democratici di diverse realtà importanti (Abruzzo, Napoli, Firenze) e da sconfitte pesanti in alcune elezioni regionali (Abruzzo, Sardegna).

Voglio aggiungere solo questo. La leadership veltroniana soccombe non per aver portato avanti con coerenza il progetto del Lingotto, ma per il suo contrario. Veltroni, indebolito soprattutto dalla sconfitta di Roma – dovuta al gravissimo errore di aver candidato Rutelli e non Nicola Zingaretti –fa diversi passi indietro. Accetta la gestione collegiale, anziché dare vita ad un gruppo dirigente giovane, coeso, motivato. E rimane prigioniero delle correnti, che a poco a poco lo affossano. Egli a sua volta è colpevole di cercare continuamente le mediazioni, rinunciando a prendere posizione sulle questioni più spinose, che invece si sarebbero dovute affrontare per dare identità e riconoscibilità ad un partito privo di una fisionomia definita, dal rapporto con la Chiesa a quello con i sindacati, dalla bioetica al legame con la sinistra europea, ecc.

Franceschini, vicesegretario di Veltroni, gli succede. Egli riprende il filo del Lingotto, correggendo alcuni errori: il rinnovamento dei gruppi dirigenti viene impostato non sulla base dell’improvvisazione ma attraverso la scelta oculata di giovani dirigenti formatisi attraverso la “gavetta”, sulle questioni controverse viene introdotto il principio della decisione a maggioranza, è ripreso il rapporto con i sindacati, CGIL compresa, e così via. Alle elezioni europee del 2009 il PD riesce a contenere i danni, risultando uno dei partiti dell’area progressista europea più votato con il 26% dei consensi. La verità, infatti, è che tutta la sinistra riformista europea, o centrosinistra che dir si voglia, è entrata in una crisi profondissima, cui il Pd non è estraneo e che cercherò di analizzare nelle pagine seguenti.

Nel frattempo, attorno a noi, il mondo è radicalmente mutato.
L’ipercapitalismo finanziario scoppia, travolto dalla bolla speculativa dei titoli sub prime, e l’economia mondiale entra nella crisi recessiva più grave dai tempi del crack di Wall Street del 1929.
Gli americani, resi coscienti dei guasti del loro modello di sviluppo, a causa della crisi economica e delle catastrofi ambientali che hanno distrutto intere città come New Orleans, eleggono per la prima volta della storia un afroamericano come Presidente, Barack Obama.
A Pechino si svolgono le Olimpiadi del 2008, proiettando alla ribalta mediatica mondiale l’ascesa del gigante cinese, con tutte le sue contraddizioni. Poche settimane prima dell’inizio dei Giochi il regime aveva represso nel sangue la rivolta tibetana.
La Russia putiniana, in preda alle nostalgie imperiali del suo nuovo zar, invade l’Ossezia.
I governi occidentali danno luogo, per contrastare la recessione, al più massiccio intervento pubblico nell’economia mai visto nella storia del capitalismo, anche se con risorse in gran parte destinate al salvataggio degli istituti bancari.
La Fiat chiude un accordo storico di fusione con la Chrysler, nazionalizzata dal Presidente americano neoeletto.

Siamo di fronte ad un nuovo crinale della storia, che dal crollo del Muro di Berlino in poi, passando per l’attacco terroristico alle Twin Towers di New York, non ha smesso di cambiare vertiginosamente e di riservare svolte imprevedibili.

In questi mesi, ho fatto conoscenza della Rete e delle sue straordinarie potenzialità, seppure a mio modo. Il blog e poi facebook sono diventati luogo delle mie riflessioni sulla politica italiana, sul mio partito e sul mondo straordinario e terribile che ci circonda.

Le pagine che seguono sono frutto delle riflessioni e del confronto avuto con centinaia di persone sulle ragioni, sulle difficoltà e sulla crisi irrisolta del Partito Democratico.

Il dibattito del Congresso, che ha visto scontrarsi Bersani e Franceschini, con il dott. Marino terzo incomodo, è stato molto ripiegato all’interno, incapace di fare i conti a mio avviso con i nodi veri delle nostre difficoltà: le cause della sconfitta del 2008 e del radicamento della destra berlusconiana; le ragioni dell’arretramento della sinistra europea, di cui il PD fa parte; il fallimento delle esperienze di Governo del centrosinistra, che non è riuscito a prospettare un modello di integrazione unificante del Paese; il deficit di identità ossia di capacità egemonica del nuovo partito.
(segue...)

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