sabato 5 dicembre 2009

CONCLUSIONI PROVVISORIE

CONCLUSIONI PROVVISORIE. IL FUTURO DEL PARTITO DEMOCRATICO

Le Primarie del 25 ottobre sembrano aver restituito fiato ed energia al Partito Democratico. I sondaggi registrano una ripresa di consensi, ed anche l’annunciata fuoriuscita di Rutelli non sembra aver turbato, più tanto, militanti ed elettori della principale forza del centrosinistra italiano.

Al contrario, il PDL e la maggioranza di governo sembrano vivere una fase travagliata e di conflittualità interna, come finora non si era vista. Tutto questo è la conseguenza dell’indebolimento della leadership del premier, colpito dagli scandali sessuali che hanno animato il dibattito pubblico e dalle sue vicende giudiziarie. Nel frattempo Fini ha lanciato la sua sfida alla leadership berlusconiana, differenziandosi progressivamente su questioni cruciali quali la laicità dello Stato, l’integrazione degli immigrati, la riforma della Costituzione, per profilare l’idea di una destra non populista, liberale, europea, moderna, rispettosa dei diritti dell’individuo. Il suo progetto non è a mio avviso far cadere il Governo, né causare una scissione del PDL, ma modificarne l’impianto culturale e proporsi come leader di una destra possibile per il futuro.

E’ troppo presto per dire che assistiamo ad un declino del berlusconismo, sicuramente però possiamo dire che la sua egemonia sulla società italiana, che è un dato di fatto, sia stabile e non superabile nel breve o medio tempo. Eppure, si comincia a discutere, come ha fatto di recente il Segretario del PD, di possibile tramonto del berlusconismo. Se questo avviene, non è perché Berlusconi ha commesso qualche leggerezza nelle sue frequentazioni femminili né tanto meno per l’eroismo, o a seconda dei punti di vista la cattiveria dei magistrati. L’egemonia berlusconiana appare sempre più come una realtà a rischio per la semplice ragione che anche la destra, così come la sinistra, in questi anni non ha saputo portare a compimento la transizione italiana ed europeizzare il Paese. Il berlusconismo sempre più appare come il frutto della transizione incompiuta piuttosto che il suo approdo, il prodotto di una delegittimazione generale della politica, che non a caso anche a sinistra genera l’affermarsi di posizioni populiste e predemocratiche (vedi il fenomeno del dipietrismo).

Se questa mia analisi corrisponde al vero, ci sono spazi assai importanti per il Partito Democratico, per proporsi come alternativa credibile alla possibile crisi della destra berlusconiana. Per potersi affermare come tale, occorre però un impegno nel profondo nella società; non è sufficiente un buon programma di governo, occorre modificare mentalità e costumi degli italiani, ricomporre fratture e abbattere barriere secolari, tra Nord e Sud del Paese, tra cattolici e non cattolici, tra italiani e nuovi cittadini provenienti da altri popoli. Occorre fare i conti con i propri limiti e proporsi con una piattaforma chiara e convincente di modernizzazione del Paese, a partire da un proprio autonomo sistema di valori.
E’ possibile che nello scenario futuro prossimo della politica italiana, lo sfidante del PD non sarà più Berlusconi, e la partita non sarà quindi come è avvenuto negli ultimi 15 anni tra berlusconiani ed antiberlusconiani, tra due modelli alternativi persino sul piano antropologico, e che quindi il confronto sia tra due ipotesi diverse di fuoriuscita di una lunga transizione che ormai da troppo tempo non vuole concludersi.

Sarebbe un bene per il Paese, ma sta solo ed esclusivamente al Partito Democratico trovarsi pronto a questo appuntamento. Gli elementi essenziali che ho provato a delineare per un PD che sia pronto alla sfida sono l’elaborazione di una nuova visione del mondo, l’individuazione di un’etica condivisa, la proposta di un progetto di integrazione ed europeizzazione del Paese che unifichi Nord e Sud dell’Italia.
Senza questo salto di qualità, il PD rischia di essere una riedizione del PCI, non per visione ideologica, ma per funzione: ossia, rappresentare una opposizione forte e radicata, ma incapace di proporsi come forza di governo e saranno altri a giocare la partita del dopo Berlusconi. Questo è il ruolo cui corre il pericolo di ridursi un PD che non sappia porsi l’obiettivo di laicizzare la società italiana e allo stesso tempo diventare il primo partito dei cattolici italiani, di incarnare l’ansia di riscatto della società meridionale e contemporaneamente interpretare le esigenze di modernizzazione delle piccole imprese settentrionali, rappresentare il mondo del lavoro delle fabbriche e dare voce al popolo delle partite IVA. In poche parole, avere un progetto ambizioso di riunificazione ed europeizzazione dell’Italia, la forza e la credibilità per realizzarlo.

Bersani ha il compito di dimostrare che la classe dirigente che in questi ultimi 15 anni ha fondato prima l’Ulivo, esperienza conclusasi in modo fallimentare, e poi il PD, abbia ancora le carte in regola per rinnovarsi e portare fino in fondo la sfida per il governo dell’Italia del nuovo secolo. Se anche questa volta fallirà, non potrà che essere una leadership di nuova generazione a raccogliere il testimone da chi l’ha preceduta.

BREVE SAGGIO. SESTA PARTE

LA QUESTIONE MORALE E LE CLASSI DIRIGENTI DEL PD

Si parla da tempo nel PD dell’esistenza di una questione morale, relativa alle sue classi dirigenti. Da ormai diverso tempo si sono succeduti scandali e indagini della magistratura che hanno coinvolto amministratori e dirigenti politici del Partito Democratico in diverse realtà: Abruzzo, Firenze, Napoli, la Puglia, la Calabria e infine il Lazio con le dimissioni di Marrazzo da Presidente della Giunta Regionale del Lazio.

La mia regione, l’Abruzzo, è stata tra le più colpite: la sua Giunta regionale, presieduta da una personalità di spicco e di rilievo nazionale come Ottaviano Del Turco, già segretario aggiunto nella CGIL di Lama, poi segretario del PSI nel dopo Craxi e Ministro delle Finanze nel Governo Amato, è stata decapitata per un giro di tangenti relative alla sanità privata, su cui il processo è ancora in via di definizione. Successivamente, è stata la volta del sindaco di Pescara nonché leader del PD abruzzese, Luciano D’Alfonso, anch’egli indagato dalla Procura di Pescara. Ho quindi vissuto in prima persona insieme con tanti dirigenti abruzzesi l’ondata di scandali che nella primavera scorsa ha travolto il PD a livello nazionale, e che ha avuto l’epicentro proprio nella nostra regione.

Non voglio entrare nel merito di procedimenti giudiziari, che almeno per quanto riguarda le vicende abruzzesi presentano tuttora molti lati oscuri. Si tratta di vicende, sia quelle relative alla mia regione sia quelle relative ad altre realtà del Paese, tra loro diverse e su cui bisogna tuttora fare chiarezza. Ciò nonostante, perché tanti episodi si sono succeduti nel corso dei mesi recenti mettendo a così dura prova la tenuta del partito? Non può essere il frutto di una concatenazione di eventi puramente casuale, né si può ovviamente credere nell’esistenza di un complotto che abbia puntato a colpire il PD, che coinvolga realtà e situazione così lontane e diverse tra di loro. Una risposta a questo interrogativo è necessario darla, ed esso si è sintetizzato nella domanda: esiste una questione morale nel PD?

In primo luogo, occorrerebbe fare ciò che invece si elude sistematicamente di fare: analizzare qual è il concetto di cui si discute. L’espressione questione morale fu coniata da Enrico Berlinguer, Segretario Generale del PCI, in un’intervista a Scalfari su La Repubblica del 1981. Da allora sono passati “soltanto” 28 anni ma è come se fosse un secolo! La mia impressione è che la politica e la società cui si riferiva il leader del comunismo italiano appartengano ad un altro mondo e che la categoria della questione morale sia anch’essa appartenente ad un’altra epoca. So che è invece luogo comune affermare che la questione morale è l’eredità berlingueriana più attuale, ma personalmente non condivido. Il Berlinguer del 1981 è un leader sconfitto, emarginato dal gioco politico, sulla difensiva dopo il fallimento della strategia del Compromesso Storico, alla ricerca di contenuti che conferiscano un minimo d sostanza alla proposta fumosa ed evanescente dell’Alternativa Democratica. Con ciò non voglio dire che l’enunciazione della Questione Morale fosse priva di un suo fondamento e non contenesse una verità profonda. Ciò che Berlinguer intuì, con la lungimiranza che gli era propria, e che s’intravvede chiaramente nel rileggere l’intervista al fondatore de La Repubblica, è la crisi del sistema dei partiti, il distacco sempre più profondo tra di essi e la società italiana, il loro ridursi a macchine di potere dedite all’occupazione sistematica delle istituzioni. La sua critica era ovviamente rivolta essenzialmente ai partiti di governo, a quel Pentapartito che allora doveva ancora configurarsi come tale, allora appena agli esordi di uno strapotere che sarebbe durato un decennio e che nessuno poteva immaginare allora sarebbe crollato come un castello di sabbia nel giro di undici anni; e questo dimostra la profondità della visione berlingueriana, per quanto drammaticamente priva di sbocchi strategici. Con la questione morale Berlinguer voleva, da un lato, segnare l’alterità del suo partito, che aveva il suo corollario nella cosiddetta “diversità comunista”, proponendolo come punto di riferimento imprescindibile di qualsiasi alternativa di governo, e dall’altro, metterlo al riparo da degenerazioni del sistema democratico che pure rischiavano di coinvolgerlo e che avrebbero poi portato a Tangentopoli. Non si può dire che non raggiunse in buona parte il suo obiettivo: il suo PCI, per quanto escluso dall’area di governo e sempre più isolato, riuscì ad affermarsi come “riserva morale” del Paese, nonostante singoli episodi di coinvolgimento nella corruzione dilagante, e su questa base comunque preservare il suo consenso e consolidarlo, finché nelle elezioni europee del giugno 1984 il PCI, grazie anche all’impatto emotivo della scomparsa appena avvenuta del suo capo, per la prima volta riuscì a scavalcare la DC e diventare il primo partito italiano, con oltre il 33% dei consensi. Tuttavia, dopo la sua morte seguirà un lento declino, che però non impedì ai comunisti italiani di essere l’unico partito storico tra i fondatori della Repubblica a sopravvivere alla tempesta di Mani Pulite, anche grazie alla svolta di Achille Occhetto che trasformò il PCI in PDS e fece confluire il partito nell’Internazionale Socialista.

C’è da dire inoltre che Berlinguer contornava la sua analisi sulla questione morale di tutta una serie di precisazioni volte ad evitare che essa fosse intesa in senso ideologico, moralistico, a darle un contenuto realistico e concreto, fondato sul tipo di rapporto tra società e politica che si andava profilando in Italia. Di fronte all’evidente degenerazione del sistema partitico italiano e al suo allontanarsi sempre più dalle esigenze di modernizzazione della società, del resto lo slogan della questione morale, proprio perché semplicistico, aveva una sua presa su settori non piccoli della società, anche se l’isolamento politico e la chiusura conservatrice di Berlinguer su altri versanti della sua politica, come sulle riforme istituzionali e della politica economica (vedi referendum sulla scala mobile), resero progressivamente il PCI incapace di raccogliere ed interpretare la domanda di cambiamento del Paese.

Tutte queste specificazioni realistiche dell’analisi berlingueriana peraltro si sono purtroppo perse nel tempo, e la questione morale si è tramandata negli anni secondo una declinazione assolutamente sbagliata e fuorviante. Ed era inevitabile che fosse così, dato che la sua stessa denominazione contiene un’aporia insuperabile, ossia quella di confondere due piani che non possono stare insieme: la politica e la morale. La separazione tra politica e morale, di cui il primo e principale teorico fu il nostro Machiavelli, è una delle premesse della laicizzazione dello Stato e della politica; senza di essa non sarebbe stato creato lo Stato di diritto. La politica può al massimo avere un rapporto, non però immediato, con l’etica, nel senso di trarre dall’etica condivisa, emergente dal dibattito pubblico, regole e norme che poi si traducano nell’assetto istituzionale e nella legislazione di uno Stato. Mai e poi mai in un regime democratico e liberale la politica può giudicare la moralità dei comportamenti, compito che invece compete ad altri attori sociali (la Chiesa, la scuola, la famiglia); per ciò che riguarda lo Stato, ad esso non interessa la moralità degli individui se non per gli eventuali reati da essi commessi, la cui persecuzione tuttavia spetta ad organi specifici, nella fattispecie quelli giudiziari, nei limiti imposti dalla legge. La Questione Morale di cui si discute oggi è dunque un residuo antistorico di una visione ideologica della politica, quale era quella che caratterizzava il PCI berlingueriano, peraltro frutto in particolare dell’elaborazione di un gruppo interno al comunismo italiano minoritario ma molto attivo culturalmente, quello dei rodaniani, ossia dei cattocomunisti, unici davvero titolati ad essere così definiti, in quella fase molto influenti sulla leadership berlingueriana. Questa visione, separata peraltro dal contesto storico e dagli elementi di analisi da cui era stata prodotta, non può che avere effetti disastrosi sul piano culturale e ideologico, poiché ha alla sua base la presunzione di una superiorità morale da parte di chi se ne appropria e se ne fa banditore, che non è accettabile in un sistema democratico.

Se poi questa concezione moralistica si mescola con il giustizialismo e l’idealizzazione della magistratura, che ha pervaso la sinistra italiana negli ultimi vent’anni, prima per il sostegno non ingiustificato all’opera svolta dalla magistratura nella lotta alla corruzione e alla mafia e poi, successivamente, per reazione alla conflittualità berlusconiana verso i giudici, il disastro culturale è bello e fatto. La sinistra si ritrova, orfana della diversità berlingueriana, a giudicare la società e se stessa con lenti del tutto deformate.
L’Italia degli anni novanta e del nuovo secolo non è l’Italia degli anni settanta e ottanta; allora la caratteristica dominante è lo strapotere dei partiti e dello Stato sulla società; oggi è la debolezza e la fragilità della politica di fronte agli spiriti animali di un capitalismo globale trionfante, di interessi corporativi e poteri economici che si appropriano della politica fino al caso limite berlusconiano dell’Azienda che si fa direttamente Partito.
Questa evoluzione che non è solo italiana, nel nostro Paese raggiunge livelli parossistici, dato il tradizionale sentimento antipolitico che domina la nostra cultura, o se si preferisce incultura democratica. Interpretare questo fenomeno con la lente della questione morale vuol dire non capire nulla e non coglierne l’essenza. Significa non cogliere innanzi tutto perché la magistratura, nel perseguire giustamente il malcostume della corruzione che è ampiamente diffuso purtroppo in Italia, oggi come venti anni fa finisca con il colpire prevalentemente i politici, e quasi mai i poteri economici e gli apparati burocratici che della corruzione sono partecipi protagonisti. Significa non comprendere nemmeno ciò che per l’appunto è accaduto venti anni fa, quanto le inchieste di Mani Pulite portarono al tracollo di quasi tutti i partiti che avevano contribuito a fondare e costruire la democrazia italiana.

Quei partiti, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, il Partito Repubblicano, ecc., furono delegittimati e spazzati via non da Tangentopoli, che come sistema esisteva da anni se non da decenni senza che ciò avesse minimamente incrinato il loro potere e senza che i giudici avessero avuto né il coraggio né la forza di scalfirlo, e quei pochi che ci provarono furono rapidamente messi nelle condizioni di non nuocere. Furono al contrario messi in crisi e colpiti a morte dal venire meno della loro funzione storica, non solo in conseguenza del crollo del Muro di Berlino, che è stato solo la spinta finale di un lungo processo di svuotamento della democrazia dei partiti che in realtà aveva cominciato a perdere ruolo e credibilità già dalla fine degli anni settanta. La crisi irreversibile del sistema partitico della Prima Repubblica fu in realtà determinata dal suo immobilismo, dalla mancanza di ricambio delle classi dirigenti e in definitiva dalla sua incapacità di corrispondere alle esigenze di modernizzazione della società italiana, rese sempre più impellenti dall’integrazione europea e dalla competizione economica globale. Una parte consistente di essa a cominciare dal mondo dell’impresa e dai ceti economici più dinamici, divenne così progressivamente consapevole della necessità di liberarsi da quel sistema che non garantiva più la coesione del Paese e la sua crescita. Il crollo del muro di Berlino e la fine dei vincoli della Guerra Fredda furono il contesto in cui ciò fu possibile che avvenisse.

E se oggi si torna a parlare di questione morale, e da più parti si è evocato il riaffiorare di un clima analogo a quello respirato nel periodo di Tangentopoli, è perché oggi come allora siamo di fronte ad una crisi di rappresentanza di una classe dirigente politica, che non stata capace in questi quasi vent’anni di Seconda Repubblica di mantenere fede alle promesse di modernizzazione del Paese: nessuna decisiva riforma economica e sociale è stata portata a compimento o quasi, i tentativi di modifica della Costituzione e dell’assetto istituzionale per rendere più efficiente ed efficace la nostra democrazia sono tutti miseramente falliti, la distanza tra Nord e Sud dell’Italia è tornata a crescere, in termini di infrastrutture materiali ed immateriali, di efficienza dei servizi, di livelli di reddito e così via. E ciò si aggiunge al fatto che la politica oggi è assai più debole di quanto non lo fosse venti anni fa, sempre più si riduce a mera tecnica di gestione del consenso e del potere. Dentro questo fallimento della politica italiana, c’è il fallimento non del Partito Democratico, ma di gran parte del ceto politico del centrosinistra che ha fondato il nuovo partito guidato oggi da Bersani. La politica ha perso in questi anni la sfida dell’innovazione del cambiamento, e si è smarrita, ha perso autonomia e ruolo. Da questo scaturisce la sua delegittimazione, ed anche quella dei gruppi dirigenti attuali del Partito Democratico. Per queste ragioni, oggi i suoi dirigenti sono spesso sotto accusa in particolare nel Mezzogiorno. E’ nelle realtà del Sud Italia, più che altrove, che il centrosinistra aveva progressivamente ricevuto un investimento di fiducia, a partire dalla stagione dei Sindaci eletti direttamente dai cittadini, per il cambiamento e la rinascita civile di quei territori. E alla lunga invece il centrosinistra, soprattutto nel governo delle Regioni, di fronte all’impossibilità di un reale cambiamento in assenza di una politica nazionale che lo favorisse, si è adagiato nella gestione dell’esistente. Dalla gestione dell’esistente al diffondersi di fenomeni di clientelismo, nepotismo, corruzione e in qualche caso connivenza con la criminalità organizzata, in realtà, il passo è molto più breve di quanto non si pensi. Così come è abbastanza facile che in regioni centrali come la Toscana, dove la sinistra governa da decenni in assenza di ricambio, e che sono quelle più in sofferenza di fronte ad un sistema-Paese che non si modernizza, possano anche in questo caso diffondersi fenomeni di degenerazione.

Avere interpretato il succedersi di indagini della magistratura verso amministratori e dirigenti del PD attraverso la categoria della questione morale, coma ha fatto tutto il gruppo dirigente postcomunista, da Veltroni a Bersani, oppure in termini di “singole mele marce” come invece le ha definite Franceschini, è stato da un lato sintomo di un grave ritardo culturale, dall’altro un comodo alibi per non affrontare la sostanza del problema: ossia, la delegittimazione e la crisi di rappresentanza della propria classe dirigente. Questo modo di impostare la crisi delle classi dirigenti è stato esiziale, perché peraltro ha avuto due effetti assai negativi: uno, sul medio periodo, di impedire per l’appunto al partito di vedere qual è la sostanza della questione, l’altro più immediato di generare sconcerto e disorientamento negli elettori, in specie di sinistra, abituati a rappresentare i propri dirigenti come superiori sul piano morale, e a pensare allo stesso tempo che i giudici siano infallibili e quindi non possano sbagliare. Agitare la questione morale da parte dei dirigenti del PD è quindi stata percepita da loro come una grave ammissione di colpa, non politica, il che sarebbe anche emendabile ma morale, il che è per loro imperdonabile.

Gli elettori di sinistra dovrebbero invece abituarsi all’idea laica che non esistono partiti e gruppi dirigenti “geneticamente” onesti e moralmente superiori; come accade in tutto il mondo, soprattutto quando si partecipa della gestione del potere politico governativo, possono esserci, in qualsiasi partito, fenomeni di corruzione, abusi, illegalità. Ciò che la politica deve garantire, e soprattutto le forze progressiste e democratiche, sono regole chiare ed efficaci di trasparenza, di autocontrollo, di sanzione ed allontanamento di chi sbaglia, di ricambio dei gruppi dirigenti. Il Partito Democratico, anziché ripetere formule come la questione morale che appartengono a visioni ideologiche del passato, dovrebbe piuttosto contribuire a porre in Italia la questione etica dell’autoregolamentazione della politica e della sua riforma, ma soprattutto della necessità di restituire alla politica autonomia e capacità decisionale. E del resto, sono questioni tra loro connesse: senza un codice etico di autoregolamentazione, che ad esempio vieti le candidature di chi è oggetto di procedimenti giudiziari per reati gravi o impedisca conflitti d’interesse, non solo per chi è proprietario di mezzi d’informazione, ma anche per tutte le categorie potenzialmente portatrici di interessi conflittuali con l’interesse pubblico, non ci sarà nessuna credibilità e autorevolezza della politica; senza autonomia della politica non c’è codice di condotta che tenga.

Non è di questo, tuttavia, che si è discusso nel Partito Democratico, dopo i casi dell’Abruzzo, di Firenze, di Napoli; ci si è invece auto - flagellati sulla questione morale per settimane, pagando così un caro prezzo sul piano elettorale a favore d Di Pietro, e si è rinviato invece l’avvio di un processo di ricambio dei gruppi dirigenti, che invece era e resta il problema impellente da affrontare.

Il rinnovamento dei gruppi dirigenti è il più complesso dei problemi che un partito possa affrontare; esso non s’improvvisa, è il frutto di processi dolorosi, dato che la tendenza più naturale ed innata per i gruppi dirigenti di un partito è l’autoconservazione. D’altra parte, nessun partito, tanto meno un partito che aspira al governo, si può permettere di improvvisare, la credibilità dei gruppi dirigenti è ciò che conferisce credibilità ed autorevolezza ad un partito. Il rinnovamento, storicamente, secondo le esperienze che si sono realizzate nel tempo nella lunga storia dei partiti politici, può avvenire essenzialmente in due modi: o per selezione guidata e graduale, come avveniva principalmente nel PCI, o attraverso i conflitto e la capacità di una nuova generazione di imporsi sulla vecchia, come è accaduto nella vicenda del PSI, basti pensare al famoso colpo di mano con cui Craxi e Signorile s’impadronirono della direzione del partito in occasione della riunione tenutasi al Midas, celebre hotel della capitale. Se volgiamo lo sguardo a ciò che è accaduto di recente nel mondo, nei partiti di area progressista, vediamo che il ricambio delle leadership è avvenuto prevalentemente attraverso la via conflittuale; in molti casi abbiamo avuto modalità “miste”, in cui un rinnovamento avviato attraverso il controllo e la selezione da parte dei gruppi dirigenti storici è stata improvvisamente accelerata dall’affermazione autonoma di una nuova leadership. E’ questo il caso di Tony Blair, che ha saputo affermarsi con il proprio carisma nel Labour Party, ma il cui avvento insieme con Gordon Brown alla guida del partito fu in qualche modo preparato dalla guida di un leader saggio e lungimirante come Neil Kinnock. Alla via conflittuale appartiene invece l’affermazione di Zapatero, che impose dal suo basso la sua leadership ad un gruppo dirgente storico del PSOE ormai logorato dalle sconfitte e da scandali giudiziari.

La difficoltà seria per il PD è che non esistono le condizioni, allo stato attuale, per rendere praticabile nessuna delle tre vie: né quella della cooptazione, se così vogliamo definirla, né quella conflittuale, né tantomeno quella mista. Nel PD, infatti, non esistono più gli strumenti e i canali di formazione del gruppo dirigente che c’erano nel PCI (basti pensare alla celeberrima scuola delle Frattocchie, che pure ho avuto il privilegio di frequentare nei suoi ultimi scampoli di esistenza) o persino nella DC (affidati per lo più all’associazionismo collaterale di ispirazione cattolica); allo stesso tempo, la nuova generazione di dirigenti, che pure non manca, formatasi per così dire spontaneamente attraverso l’esperienza delle organizzazioni giovanili, delle sezioni o dei circoli, dei comitati per l’Ulivo, delle amministrazioni locali, non ha la forza e la determinazione per imporsi. Lo si è visto nell’ultimo Congresso, quando la generazione di cui anch’io faccio parte non ha avuto la forza di esprimere una propria candidatura per la segreteria del partito.

Di fronte a questa situazione, e dopo tanto chiacchierare a vuoto di rinnovamento, era inevitabile che i militanti e gli elettori del PD si rivolgessero nella scelta del leader ad una figura rassicurante ed affidabile, quale non a torto è apparso Pierluigi Bersani. A lui spetterà il compito di avviare un processo di ricambio non più rinviabile, e farlo seriamente e non a chiacchiere come finora è accaduto, sfidando una nuova generazione ad assumere l’onere della responsabilità di dirigere effettivamente ai massimi livelli, compreso quello nazionale, il principale partito di opposizione.

BREVE SAGGIO. QUINTA PARTE

IL MONDO CAMBIA. AMERICA, EUROPA E ITALIA

Il mondo che cambia è un altro riferimento essenziale per l’identità democratica da disegnare. Il mondo non è mai cambiato ad una rapidità tale, come quella degli ultimi 50 anni. I cambiamenti avvenuti negli ultimi venti anni sono stati a loro volta più sconvolgenti di quanto potessimo immaginare. Il crollo del Muro di Berlino lasciava pensare molti di esserci avviati verso il regno incontrastato del libero mercato e del benessere, ed invece il capitalismo occidentale come abbiamo visto si è scoperto incapace di dominare il mondo sempre più unificato, che esso stesso ha contribuito a creare.

Cambiano i riferimenti politici con cui abbiamo interpretato la società mondiale. Venuto meno il bipolarismo USA – URSS, nel giro di dieci anni ci siano resi conto che anche l’unipolarismo dell’iperpotenza americana comincia ad avere crepe evidenti.

Infine, la crisi economica mondiale del 2009, la più grave dai tempi della Grande Depressione del 1929, ha abbattuto in un solo colpo ogni certezza sulle virtù magnifiche e progressive del capitalismo.

La vittoria di Barack Obama è stato senza dubbio l’evento simbolo di un mondo che è profondamente mutato. Per la prima volta gli americani hanno eletto un presidente afro-americano, che si è proposto promettendo “The Change”, un cambio radicale rispetto al passato: rispetto all’eredità fallimentare della presidenza Bush, ritenuta responsabile del disastro della guerra irakena e della crisi finanziaria che ha travolto l’economia americana e mondiale; ma anche rispetto alla politica americana tradizionale degli ultimi decenni.

Questo è avvenuto, a mio avviso, perché l’opinione pubblica americana ha preso coscienza per la prima volta che l’America da sola non può farcela. Non può farcela a dominare un mondo sempre più globalizzato, ad affrontare i grandi rischi del futuro, a sostenere un modello di sviluppo economico fondato sulla dissipazione delle risorse energetiche e sull’indebitamento. Tre sono stati gli eventi traumatici che hanno segnato questa evoluzione della coscienza nazionale degli americani: l’abbattimento delle Twin Towers dell’11 settembre 2001 da parte dei terroristi islamici di Al Qaeda, che ha reso evidente l’impotenza militare americana di fronte ad un terrorismo globale che si organizza a rete, fuori dai tradizionali conflitti tra stati; la distruzione di New Orleans da parte del tornado Katrina, che ha reso tragicamente manifesta la grande questione del surriscaldamento del pianeta, con le alterazioni climatiche conseguenti, e quindi la necessità di mutare il modello di sviluppo economico attuale; ed infine, per l’appunto, la crisi finanziaria ed economica, conseguenza del forte indebitamento delle famiglie della classe media americana.

Senza questi eventi shock, Obama non avrebbe mai vinto le elezioni presidenziali con quella larga partecipazione popolare che si è verificata, a suo favore.

Ci sono due possibili modi di interpretare la svolta obamiana. Il primo è quello di considerarla come una manifestazione della grande vitalità della democrazia americana e del suo successo, ed è il modo largamente prevalente. Il secondo, invece, nonostante l’indubbio grande carico di speranza che essa ha recato in America e nel mondo, è ritenerla un effetto della crisi e del declino della potenza americana. A mio avviso, c’è del vero in entrambe le interpretazioni.

Secondo un noto politologo, Charles Kupchan, uno dei teorici del multilateralismo del nuovo indirizzo della politica estera americana, siamo di fronte alla “Fine dell’Era Americana”. Il suo libro, così intitolato, è stato scritto prima dell’elezione di Obama, in piena crisi della Presidenza Bush, ma contiene sicuramente spunti di analisi rimasti validi, alla luce di quanto sta accadendo attualmente nella politica mondiale. Il declino irreversibile dell’egemonia americana deriverebbe da un insieme di fattori che Kupchan individua nel forte indebitamento estero dell’economia americana e quindi la sua dipendenza dai paesi creditori, nell’ascesa di nuove potenze mondiali come la Cina, l’India, il Brasile, la stessa Unione Europea, nella rivoluzione digitale che offre opportunità di crescita a realtà nazionali e continentali in passato emarginate dallo sviluppo, nella naturale inclinazione americana all’isolazionismo. Gli Stati Uniti sempre più scoprono di non avere le risorse economiche, militari, politiche per reggere la responsabilità di unica potenza mondiale, e quindi nel tradizionale pendolo della politica americana tra unilateralismo, internazionalismo e isolazionismo, variamente combinati fra loro, sarà la vocazione a ripiegare nei propri problemi interni la spinta destinata a prevalere. D’altra parte, il celebre studioso americano di politica internazionale, sulla base anche di precise analisi storiche, respinge l’idea che possa esistere una Fine della Storia, ossia un approdo definitivo delle vicende storiche dell’umanità segnata dal trionfo del capitalismo, del libero mercato e del modello americano, come teorizzata in passato da economisti e ideologi come Friedman e Fukuyama; l’iperpotenza americana ha di fronte a sé, come tutte le altre potenze del passato, un destino di apogeo e poi decadenza. Kupchan vede nell’attuale situazione mondiale tutti i segni di questa evoluzione, che conduce da un assetto unipolare ad uno multipolare, e confida con molto ottimismo in una rinnovata partnership tra Stati Uniti e Unione Europea, come asse fondamentale per governare un nuovo ordine mondiale fondato sul multilateralismo, dopo la fase dell’unilateralismo dei neo con, che ha ridotto ai minimi termini la credibilità internazionale americana. A patto che la politica estera della superpotenza sappia ritrovare un equilibrio tra internazionalismo e isolazionismo, chiamando proprio le nazioni europee, tra loro federate, ad assumersi sempre maggiori responsabilità, sia sul piano economico e sia sul piano militare.

L’analisi di Kupchan è molto convincente, e sicuramente è una delle fonti d’ispirazione del nuovo corso obamiano. Tuttavia, pecca di eccessiva fiducia nell’Unione Europea e forse di eccessiva sfiducia verso il proprio Paese. Quando il suo saggio è stato scritto e pubblicato, come già detto, Obama non aveva ancora vinto né le primarie dei Democrats né le elezioni presidenziali. Nessuno si poteva aspettare un cambiamento simile a quello che c’è stato. I fatti hanno dimostrato che l’America, aldilà delle aspettative, ha saputo guardare avanti e scommettere sul futuro, mentre l’Unione Europea arranca, è tuttora in una fase di stallo e non è assolutamente all’altezza delle sfide della nuova fase e dell’assunzione di responsabilità, che una nuova partnership euroamericana richiederebbe.
Oggi si discute molto delle promesse non realizzate da Obama, delle sue difficoltà e della delusione che c’è nei suoi confronti. E’ a mio avviso una discussione mal impostata. La radicalità dei cambiamenti che il nuovo presidente americano ha messo in campo è tale, da essere paragonabile ai mutamenti impressi all’economia e alla società americane da Roosevelt negli anni trenta, o per un altro verso da Reagan negli anni ottanta del secolo precedente; non è solo un cambio di politiche, ma per molti aspetti un cambio di sistema, un mutamento di paradigma, come quello che portò alla creazione del Welfare State con il New Deal rooseveltiano.

Perché si completi il passaggio al nuovo modo di pensare e agire, che il New Deal obamiano comporta, non basteranno né settimane, né mesi, ci vorranno anni. Smantellare il dominio delle assicurazioni private nel campo sanitario, riconvertire la produzione americana secondo gli obiettivi di abbattimento delle emissioni inquinanti che la comunità internazionale si è data, sono sfide assai ardue, che trovano resistenza nelle lobbies, nei poteri economici e mediatici, e all’interno dello stesso Partito Democratico. Così come non sarà facile costruire le condizioni di una politica internazionale multipolare e multilaterale, improntata alla pace e allo sviluppo della democrazia. Eppure, non si può dire che Obama non ci stia provando. Sulla sanità, sta sviluppando una battaglia feroce contro le lobbies, e dopo le prime incertezze il presidente americano ha scelto di andare avanti a viso aperto; se vincerà la sua battaglia, anche a costo di qualche rinuncia, questo sarà un cambiamento epocale per la politica americana, perché vorrà dire che gli interessi dei grandi gruppi economici possono essere messi da parte, a favore di quelli della cittadinanza.

La battaglia decisiva di Obama è però nella costruzione di un nuovo ordine mondiale, qui si gioca la sua credibilità e la sua autorevolezza. Il suo primo discorso all’ONU ha rappresentato una svolta che definire epocale non è eccessivo, che da solo, per il nuovo linguaggio in esso contenuto e per le speranze suscitate nel mondo, gli è valso il Premio Nobel per la pace, che qualcuno ha giudicato prematuro.

Gli obiettivi che Obama ha proposto alla comunità internazionale sono indubbiamente ambiziosi: superare la crisi economica, modificando le regole del sistema finanziario; costruire la pace, a partire dalla risoluzione della questione mediorientale (Israele - Palestina); porre le basi di uno sviluppo sostenibile, combattendo il surriscaldamento del clima attraverso la cooperazione; sconfiggere il terrorismo ed estendere la democrazia, non attraverso la forza, ma con il consenso. Quasi tutti i commentatori si sono chiesti come potrà imporre tali obiettivi con la collaborazione di capi di stato e di governo, che per lo più non parlano il suo stesso linguaggio. La risposta è semplice. Non è solo con la virtù della diplomazia, né tantomeno con l’uso della forza (il che negherebbe alla radice i princìpi della nuova politica estera americana), che il progetto di Obama può affermarsi. Il suo successo dipende da un mutamento delle leadership, e questo presuppone a sua volta il formarsi di una consapevolezza nell’opinione pubblica, e quindi una cittadinanza globale, capace di condizionare le leadership dei singoli paesi, imponendo il cambiamento. Forse la giuria che ha assegnato il Nobel ad Obama, per il significato simbolico di questo premio, ha voluto dimostrare di averlo capito molto meglio di tanti analisti della politica internazionale.

Questo cambiamento di leadership deve avvenire innanzi tutto nell’Unione Europea, per tornare al punto cruciale del mio ragionamento. Nella costruzione di un nuovo ordine mondiale, fondato sul multilateralismo, ma allo stesso tempo sull’espansione pacifica della democrazia e dei suoi valori, come mette bene in evidenza nel suo saggio Kupchan, l’asse America - Europa è decisivo, senza questo asse il nuovo ordine fallisce. Finora nella costruzione di questo asse, ciò che è mancata non è l’America, che con Obama ha saputo darsi un nuovo indirizzo che va nella direzione necessaria; finora è mancata l’Europa. Non ci si può lamentare del pericolo del G2, ossia del rischio di un nuovo ordine in cui a menare le danze sia la Cina, insieme con gli Stati Uniti d’America, fin quando l’Unione Europea non si deciderà a diventare attore globale, e non custode delle rivalità nazionali come è finora.

Mentre scrivo, si è finalmente giunti alla ratifica del Trattato di Lisbona. Si arriva a questo risultato però con troppo ritardo, dopo che era stato clamorosamente bocciato dal referendum francese un primo progetto di Costituzione europea, ben più ambizioso dell’attuale Trattato; e molta fatica si è fatta anche ad imporre la ratifica di quest’ultimo, inizialmente bloccato dai no degli irlandesi. La scelta da parte del Consiglio d’Europa di un Presidente dell’Unione stabile per due anni, che ne rappresenti la voce unica, costituirà sicuramente un passo avanti importante, così come la nomina di un Alto Rappresentante per la Politica Estera. Tuttavia, lo stesso tipo di discussione che si è fatta sull’individuazione della figura del Presidente e del cosiddetto Mr. PESC rivela la debolezza politica dell’Unione Europea. Ad un certo punto, sembrava essersi profilata la candidatura di Tony Blair a Presidente; sicuramente la sua elezione avrebbe assicurato all’Unione Europea una leadership carismatica, con più autorevolezza di quanto i poteri previsti dal Trattato non conferiscano effettivamente al Presidente. Ed è questa la ragione esatta per cui la candidatura di Blair sembra alla fine essere stata scartata dai capi di governo europei, oltre alle contraddizioni e agli errori della sua leadership politica, durante il suo governo della Gran Bretagna: l’ambiguo europeismo, la mancata adesione all’Euro, la guerra in Iraq. Per ragioni analoghe, è stata successivamente scartata la candidatura di Massimo D’Alema ad Alto Rappresentante per la Politica Estera, nonostante il suo profilo di europeista convinto, che senza dubbio ha avuto sulla politica internazionale posizioni assai distanti da quelle dell’ex premier inglese. Al suo posto, i capi di governo europei hanno preferito la baronessa Ashton, semi - sconosciuta Commissaria europeo al commercio, priva quasi del tutto di esperienza diplomatica, anche per compensare la Gran Bretagna della mancata nomina di Blair.

Ciò che però sembra del tutto sfuggire alla classe dirigente europea, compresa quella progressista e socialista, è la drammaticità della lentezza con cui la costruzione politica dell’Europa si presenta di fronte alle necessità della storia. La ratifica del Trattato e la nomina del Presidente saranno festeggiati come grandi eventi, quando invece è ben altro che si chiede all’Unione Europea. Una politica economica unitaria, capace di affrontare la crisi e soprattutto di determinare un nuovo sistema di regolamentazione del sistema finanziario e del mercato monetario che prevenga ulteriori future crisi; un protagonismo europeo nello scenario mediorientale e in generale nella politica per la pace; la costituzione di un vero e proprio Esercito europeo, professionalmente preparato in specie per le missioni di peacekeeping, senza di cui l’Unione Europea non sarà mai presa seriamente in considerazione come potenza politica globale: queste sono le attese fondamentali che finora i dirigenti europei hanno deluso.

Accanto a ciò, c’è il sempre maggiore disincanto e disinteresse dei cittadini, che, dopo la Moneta Unica e l’allargamento dell’Unione all’est europeo, vedono solo i svantaggi e non i benefici di scelte necessarie, ma che non sono state accompagnate da una crescita economica e del benessere. Al contrario, ciò che è accaduto è un progressivo svuotamento della sovranità democratica delle istituzioni nazionali, da un lato, e una crescente paralisi delle istituzioni europee. Infatti, poiché l’allargamento dell’Unione a 27 non è stato affiancato dalla necessaria riforma delle procedure decisionali, che solo in parte saranno migliorate dal Trattato, il risultato è che le istituzioni europee sono sempre meno in grado di dare risposte rapide ai problemi, ma soprattutto appaiono sempre più lontane dai cittadini e sempre meno trasparenti. Da ciò, non può che derivarne un sempre maggiore estraniamento dei cittadini dall’Europa e un rafforzamento dei poteri delle tecnocrazie burocratiche, ed in particolare della BCE, che, con le sue politiche ispirate prevalentemente al contenimento dell’inflazione, è una delle principali responsabili dei bassi tassi di crescita dei paesi europei.

La verità è che l’Unione Europea non farà nessun progresso finché non ci sarà una classe dirigente, in grado di assumere la sfida che può apparire utopica ma necessaria, di fare di essa una grande democrazia postnazionale. (Spesso con eccesso di retorica si dice la prima democrazia postnazionale, ma in realtà la prima realtà politica postnazionale della storia sono, di fatto, gli Stati Uniti d’America, ed è questo uno dei fattori che li rendono ancora forza egemonica in un mondo che va sempre più mettendo in crisi i fragili Stati nazionali.)
La stessa sinistra riformista europea non ha saputo in questi anni farsi carico di questa prospettiva, ed in ciò c’è la ragione della sua crisi attuale.

Molti, di recente, si sono chiesti il perché di fronte alla crisi economica mondiale, che ha messo radicalmente in discussione gli assiomi del pensiero liberista, si assista nei paesi europei ad una difficoltà drammatica dei progressisti (basta pensare alle ultime elezioni europee e al tracollo della SPD nelle elezioni politiche tedesche), che invece vincono in altre realtà, come il Giappone, l’Australia, oltre che in America. Di recente, in un articolo ferragostano su Il Messaggero, se l’era chiesto anche l’ex leader dell’Ulivo.La risposta di Prodi è un affondo alla Terza Via di Blair: la sinistra al governo negli anni novanta in quasi tutti i Paesi europei si è limitata a gestire le politiche neoconservatrici con qualche piccola modifica di "linguaggio" (mi sembra riduttivo pensare che le modifiche fossero solo di linguaggio, ma nella sostanza l'ex leader del centrosinistra dice il vero); è ciò oggi la renderebbe poco credibile. Prodi coglie un aspetto reale: la sostanziale subalternità del riformismo europeo degli anni novanta rispetto al cosiddetto Pensiero Unico. Un editorialista de Il Corriere della Sera ha obiettato che Prodi è stato uno dei più influenti capi di governo del centrosinistra europeo, e forse ha dimenticato le sue responsabilità. L'obiezione è giusta e non c'è dubbio che anche i governi italiani di centrosinistra hanno mostrato la stessa subalternità, dato che sempre nei momenti cruciali di scelta delle politiche economiche è sempre prevalsa l'impostazione monetarista (rappresentata nell'ultimo governo da Padoa Schioppa) su quella redistributiva e di interventismo nell'economia. Anche l'europeismo dell'Ulivo italiano è stato modellato su una idea prevalente di integrazione passiva del Paese, alla cui base c'era la convinzione che l'integrazione politica sarebbe stata conseguenza necessaria ed ineluttabile dell'integrazione monetaria ed economica, cosa che si è dimostrata illusoria, ed anche questa era una forma di subalternità del riformismo, nella sua versione italiana.
Ma il punto vero a mio avviso è che la critica di Prodi alla Terza Via coglie solo l'aspetto più superficiale. La domanda è: perché in America, dove pure c'è stata la stagione clintoniana, cui è rimproverabile la stessa subalternità al neoconservatorismo che si attribuisce al blairismo, dopo Bush e con la crisi nel suo culmine, c'è stata la vittoria di Obama? Perché la rivoluzione obamiana (massiccio intervento pubblico nell'economia, riconversione tecnologica e produttiva verso la green economy, ecc.) è credibile e vincente in America e non negli stati europei? Forse l'America, di cui ci siamo affrettati a teorizzare il declino, nonostante che questo sia relativamente vero, è ancora in grado di detenere l'iniziativa sul piano globale sul terreno economico, finanziario, tecnologico, politico, militare. L'America è tuttora una potenza, la più grande, che agisce da potenza globale. L'Europa no. La sua integrazione politica, infatti, è in ritardo drammatico. Da questo punto di vista, il vero errore tragico dei riformisti europei è aver consentito l'allargamento ad est senza aver prima risolto il nodo dell'integrazione politica, della scelta tra modello comunitario e modello intergovernativo, senza essersi dotati delle istituzioni adeguate a supportare l'allargamento, con il risultato che il secondo modello ormai prevale di fatto. In questo senso le responsabilità di Prodi, così come degli altri leader europei, sono maggiori di quelle di Blair, da cui certo non ci si poteva attendere la spinta maggiore sull'integrazione politica dell'Unione Europea, dati il noto orgoglio nazionale che deriva dalla tradizione imperiale e la storica resistenza inglese ad ogni cessione di sovranità.
La critica di Prodi non coglie che la Terza Via era la via inglese all'integrazione, ossia una via che non presupponeva l'unione politica europea ma una combinazione possibile dal punto di vista inglese tra vocazione atlantista e vocazione europea. La Terza Via ossia era la risposta dal punto di vista di un rinnovato asse America-Gran Bretagna alla sfida del capitalismo globale, che puntava ad attribuire a questo asse un ruolo egemonico. Le altre componenti del riformismo europeo non sono state in grado di porsi sul terreno di questa sfida. Non certo perché aderirono alla Terza Via (cosa che il socialismo europeo a stragrande maggioranza ha sempre rifiutato), ma perché non seppero elaborare un'alternativa a questo modello di integrazione, il che presupponeva la rinuncia ad ogni pregiudizio nazionale e la scelta netta dell'europeismo. Non aver costruito l'Europa politica è la vera spiegazione della mancanza di credibilità dei progressisti europei di fronte alla crisi mondiale, e del fatto che il nazionalismo populistico della destra europea in questa fase detenga l’egemonia.

Sempre Prodi, in un convegno su La Pira dello stesso periodo, ha attribuito agli inglesi la responsabilità di aver spinto con intelligenza e determinazione per un modello di integrazione politica debole, mentre gli europeisti sarebbero stati timidi e incerti. L'intelligenza degli inglesi, però, è stata proprio di consentire l'allargamento ad est senza che prima si fosse definita una costituzione politica, che avrebbe dovuto essere conseguenza immediata e necessaria dell'Euro e premessa dell'allargamento. La doppia velocità e il superamento del principio dell'unanimità, che ora Prodi e altri fautori dell'approccio comunitario sostengono, doveva essere introdotto da prima come "arma" di pressione. Ricordo che Bruno Trentin, allora parlamentare europeo, in un Seminario della Sinistra giovanile del 2000 da me organizzato, quando appena si cominciava a discutere di allargamento e non ancora c'era l'introduzione ufficiale dell'Euro, aveva già chiaro il problema e sosteneva già allora il sistema dell'Unione a velocità varabile. Per Prodi invece tutto si riduce ad un problema di timidezza e "flebilità di voce" degli europeisti, ossia riduce esattamente la questione europea ad una questione di retorica (in un passaggio del suo intervento, ha enfatizzato la necessità dell'inno e della bandiera europea, quasi tutto dipendesse da quello, così come sopravvaluta il fattore "psicologico" della moneta unica che ha preso il posto delle monete nazionali, come se bastasse a formare una coscienza europea; si visto che non è così). Invece, il superamento del principio dell'unanimità avrebbe dovuto essere uno strumento di battaglia politica da condurre in campo aperto, nel "popolo". In definitiva, il problema degli europeisti è di essere, per usare un'espressione di Reichlin che ha avuto successo, riformisti senza popolo, un'èlite priva di partito, dato che non esiste in Europa un partito coerentemente riformista, capace di muovere l'opinione pubblica.

Sono queste, in definitiva, le ragioni della crisi della socialdemocrazia in Europa, e non c’entra nulla la morte del socialismo, che i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei hanno da tempo abbandonato come dottrina.
Obama ha vinto in America perché le sue proposte erano credibili, perché l’America è in grado con la sua politica di determinare un vero cambiamento globale; i progressisti europei non sono credibili e non lo diventeranno finché saranno prigionieri delle divisioni nazionali: solo un’Europa unita è in grado di restituire respiro ad una politica di cambiamento nei paesi del Vecchio Continente. In sintesi, la crisi dell’Europa è la crisi della sinistra; sono due volti della stessa medaglia. Senza l’Europa unita, senza l’Europa attore politico globale, i progressisti europei non sono nella condizione di suscitare nessuna speranza di cambiamento analoga a quella che Obama ha suscitato negli States.

Tuttavia, non bisogna indugiare nel pessimismo. L’evoluzione dell’Unione Europea verso una vera e propria Federazione di Stati è nelle cose, una comunità di Stati che ha un unico mercato integrato e un’unica moneta prima o poi dovrà fare i conti con la necessità di una piena integrazione politica. La stessa creazione della figura del Presidente dell’Unione, insieme con quella dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera, per quanto non sia una soluzione sufficiente al problema dell’unificazione politica dell’Europa, sta ad indicare l’ineluttabilità della spinta federativa. Ciò non vuol dire che senza un’azione politica consapevole che faccia prevalere questa spinta, si arrivi senz’altro alla realizzazione dell’unità politica europea. L’obiettivo potrebbe anche essere fallito, e l’approdo sarebbe alla lunga la disgregazione e un’involuzione antidemocratica dell’Europa, con la crescita inesorabile dei nazionalismi e dei populismi.

Per rovesciare questa situazione, il nuovo raggruppamento dei socialisti democratici e dei progressisti ha una sola chance: fare propria la bandiera degli Stati Uniti d’Europa, proporre l’elezione diretta da parte dei cittadini, oltre che del Parlamento, anche del Presidente dell’Unione, liberando questa istituzione per sua natura federativa dall’involucro intergovernativo in cui è stata concepita, adottando progressivamente un modello costituzionale analogo all’americano, che del resto è l’unico possibile per una Federazione di Stati così diversificata e ampia come l’attuale Unione Europea. Apparentemente è un miraggio, in realtà è lo sbocco inevitabile di un processo di unificazione che rischia di essere affossato dalle estenuanti lungaggini delle diplomazie e dalle contorte trattative per la revisione di trattati, che sono approvati solo quando ormai appaiono già obsoleti. Far eleggere dai cittadini il Presidente dell’Unione Europea costituirebbe una potente accelerazione dell’integrazione politica, che d’un tratto si troverebbe ad essere da chimera una realtà ed un fatto.

Non si è mai vista, del resto, nella storia una forza progressista e di cambiamento che sia riuscita a vincere e a prevalere sulle forze conservatrici, senza animare una speranza, senza offrire a larghi strati di popolazione un fine per cui mobilitarsi. Proporre gli Stati Uniti d’Europa è oggi la sola parola d’ordine che può risvegliare dal torpore e dalle paure popolazioni, che oggi vedono con inquietudine il proprio futuro.

Lo scenario ad oggi, tuttavia, non è questo. Ciò cui assistiamo è invece un lento declino del Progetto Europeo, per mancanza di ambizione e di coraggio delle sue classi dirigenti. E questo ha conseguenze nefaste, soprattutto per l’Italia e per la sinistra italiana.

Il destino del nostro Paese, infatti, per la sua storia e la sua posizione geopolitica, è strettamente legato al futuro politico dell’unità europea. La principale ragione di ciò è nella fragilità dell’unità nazionale italiana. Non si è riflettuto mai abbastanza di come l’ingresso nel Sistema Monetario Europeo e poi nell’Euro abbia completamente spezzato il vecchio compromesso non solo tra capitalismo Stato e democrazia dei partiti che aveva retto la Prima Repubblica, ma anche lo stesso patto di unità nazionale tra Nord e Sud del Paese.
La mancata sostituzione con un nuovo patto di unità nazionale e un nuovo compromesso tra democrazia ed economia nel nostro Paese è alla radice dello stato di minorità delle forze democratiche e progressiste in Italia, ed il prevalere dell’asse berlusconiano-leghista, il quale a suo modo sta ridisegnando un nuovo compromesso, che prevede però l’andata in malora dell’unità nazionale.

Il centrosinistra si è illuso in questi anni che bastasse l’adesione alla Moneta Unica per trasformare in senso europeo l’Italia ed unirla. Al contrario, in mancanza di un progetto di integrazione attiva che portasse tutto il Paese nel contesto del mercato europeo integrato, rendendolo competitivo nella sua globalità, è prevalso il progetto antiunitario e disgregativo del leghismo, come si vede nel proliferare delle leghe, non solo quella di Bossi ma ora anche quelle meridionaliste, siciliane, etc. Ciò che si va realizzando è in poche parole un compromesso in cui le regioni del Nord si agganciano autonomamente e per conto proprio al mercato europeo, mentre quelle del sud continuano ad essere sostenute dalla spesa pubblica e dallo Stato, oltre che dall’economia criminale. Ed è questa la realtà di oggi del nostro Paese, che può essere cambiata solo da un centrosinistra che facesse dell’integrazione politica europea la propria parola d’ordine nazionale. Un’integrazione politica che deve però farsi carico del nuovo orizzonte Euro - Mediterraneo, della necessità di costruire un nuovo sistema di relazioni tra Europa Africa e Asia, che veda il Mezzogiorno come protagonista; tutto ciò comporta investimenti e politiche per lo sviluppo, la cui condizione essenziale è però la liberazione delle regioni meridionali dalla criminalità organizzata e dalla cattiva politica.

Il centrosinistra che ha governato l’Italia per diversi anni però non ha saputo realizzare le condizioni di questa integrale europeizzazione del Paese; la sua è stata una politica di integrazione meramente passiva, che non è riuscita a modificare nessuna delle tendenze disgregative in atto nel Paese, poiché nessuna delle riforme economiche e sociali che avrebbero potuto consentire un’integrazione attiva è stata portata a termine. Da ciò è nata, e non da altro, la sua sconfitta di fronte alla destra berlusconiana, antieuropea e antinazionale.

BREVE SAGGIO. QUARTA PARTE

LAICITA’, FEDE ED ETICA RAZIONALE

Legato al tema dell’identità e del nuovo pensiero, è quello del rapporto tra fede e laicità. Una questione essenziale per un partito di cattolici e non credenti, senza risolvere la quale è impossibile immaginare la costruzione di un’identità politica e culturale condivisa. Ed, infatti, le maggiori tensioni nei primi 18 mesi di vita del PD si sono verificate proprio su questo tema.
Dire fede religiosa in Italia vuol dire cattolicesimo, e cattolicesimo significa Vaticano, dato che come è noto la Chiesa Cattolica ha la sua capitale in Italia, dove risiede il Papa. Non debbo dilungarmi sul significato storico di questo dato, e sul condizionamento che la presenza del Papa ha sempre esercitato e tuttora esercita in Italia.

Inizialmente, i fondatori del Partito Democratico hanno pensato di poter risolvere la questione del rapporto tra laicità e fede religiosa nell’ambito dell’idea fragile e velleitaria del partito post - identitario, in cui ognuno fosse libero di esercitare un’appartenenza estranea e separata dall’appartenenza di partito. La libertà di coscienza sui temi eticamente sensibili sarebbe stato il criterio risolutivo per dirimere le controversie, insorgenti nel rapporto tra etica laica ed etica religiosa. Ben presto questo criterio si è rivelato illusorio.
In primo luogo, perché distinguere l’ambito delle questioni sensibili, su cui poter esercitare l’obiezione di coscienza da parte dei singoli rappresentanti elettivi del partito, da quello delle questioni non eticamente sensibili diventa un’impresa difficile. E soprattutto questo approccio si è dimostrato illusorio per una ragione di fondo: etica e politica, per quanto distinte, sono sfere dell’agire umano molto vicine tra loro; e la potenza della scienza e della tecnica oggi è tale da invadere sistematicamente il vissuto quotidiano delle persone, ponendoci continuamente questioni etiche relative alla sfera della vita e della morte, delle relazioni affettive, della cura di malattie considerate incurabili fino a qualche decennio fa, e così via.
Una politica, che rinunciasse ad intervenire nel campo della bioetica sarebbe una politica impotente e ridotta al silenzio, su questioni che invece interrogano e angosciano la gran parte delle persone in carne ed ossa.
Il dominio della scienza e della tecnica è uno dei connotati specifici dell’epoca in cui viviamo. Su questo ha scritto riflessioni approfondite uno dei nostri filosofi contemporanei più importanti, Emanuele Severino. Secondo Severino, il dominio della tecnica, e la perdita di senso della vita, che ne deriva (nichilismo) è una conseguenza dello sviluppo della civiltà occidentale, della concezione stessa che questa ha del mondo fin dalle sue origini, fondata com’è sull’idea del dominio della ragione umana sulle cose, sul divenire, sul continuo nascere e morire di tutto ciò che ci circonda. C’è del vero in questa analisi. Ma la scienza e la tecnica non sono l’unico fattore di sviluppo e di dominio della civiltà occidentale. Un altro fattore di eguale se non maggiore importanza, è l’asservimento dell’agire umano al profitto per il profitto, al dominio del mercato e della competizione individualistica. La tecnica, e con essa la scienza, diventano, nell’ambito di società orientate a tali valori, strumenti neutri, la cui efficienza è valutabile solo per la loro capacità di favorire il profitto e la mercificazione della vita. E’ questo che produce la perdita di senso, non il prevalere del metodo scientifico in quanto tale, le cui finalità sono comunque frutto di scelte umane. L’economia, o per essere più esatti, il mercato, questo mercato qui che conosciamo oggi, globalizzato, fuori dal controllo degli Stati e delle democrazie nazionali, in crisi di sovranità e di potere, questo mercato che si è impossessato della scienza e della tecnica, con le loro straordinarie potenzialità, asservendole ai propri fini.

La perdita di senso, quindi, è una realtà, non immodificabile come sembra lasciar pensare Severino (quasi che fosse un effetto ineluttabile della natura nichilista della cultura occidentale, fondata sul primato della scienza e della tecnica), ma è una realtà concreta e strettamente legata all’estraneazione, che ciascuno di noi vive di fronte a potenze che sfuggono completamente dal nostro controllo, ma che condizionano pesantemente la vita quotidiana di ciascuno: le potenze per l’appunto del mercato, del denaro, delle speculazioni finanziarie, della scienza, delle tecnocrazie sovranazionali senza controllo democratico. E se a questo si aggiunge la capacità mai raggiunta in precedenza dalla scienza di incidere sui confini stessi della vita umana, si capisce come esista una gigantesca domanda di senso, cui la politica impotente, ridotta a gestione dell’esistente, non riesce a rispondere.

Del resto, l’umanità ha assistito negli ultimi decenni del secolo scorso ad uno straordinario rovesciamento di prospettiva, che ha modificato in modo radicale il modo con cui noi abbiamo percepito e sentito il mondo nell’ultimo millennio: la crisi dell’idea stessa di progresso. A partire soprattutto dal Rinascimento, e poi grazie al progredire della scienza e alla svolta rappresentata dal Secolo dei Lumi, l’umanità per secoli ha creduto nella possibilità di un miglioramento progressivo delle condizioni di vita, di un avanzamento continuo ed ininterrotto della civiltà. Le scoperte scientifiche, i progressi della medicina, lo sviluppo delle tecnologie, le rivoluzioni sociali effettivamente hanno consentito in questi secoli di far progredire l’umanità, liberando masse crescenti di persone dalla fame, dalla malattia, dalla miseria. Oggi, però, per la prima volta l’umanità, anche nei paesi più civilizzati, comincia invece a pensare che il futuro che ci attende non sarà migliore del passato, ed anzi che nessuno possa escludere persino l’estinzione della specie umana, non per cause naturali, ma per autodistruzione.

La crisi dell’idea di progresso era già cominciata dopo la seconda guerra mondiale. L’Olocausto, lo sterminio sistematico di milioni di ebrei e di altri innocenti da parte dei nazisti, erano stati il triste presagio di come in realtà la scienza umana potesse essere messa al servizio del male anziché del bene, della morte anziché della vita, della distruzione anziché della creazione. L’invenzione dell’atomica come arma di distruzione di massa e di distruzione totale, era stata la drammatica conferma. Infine, l’esplodere recente della questione climatica e la prospettiva di distruggere le condizioni della sopravvivenza umana in pochi decenni, senza una profonda riconversione dell’economia e delle tecnologie, è stata la definitiva sanzione della perdita di fiducia dell’umanità nei propri mezzi, nella capacità della ragione di guidarci verso una vita migliore.
In mezzo c’è stato il crollo dell’utopia comunista, travolta dopo la caduta del muro di Berlino in quasi tutti i Paesi in cui si era affermata, dando vita a regimi oppressivi e autoritari, e con essa era sembrata entrare in crisi irreversibile l’idea stessa della politica come forza emancipatrice e di riscatto.

In questo contesto storico, non è affatto strano, anzi è facilmente spiegabile, come la religione sia tornata ad essere essenziale per milioni di esseri umani in tutto il mondo, ed anche in Occidente, colmando un vuoto abissale di senso e di riferimenti etici, che la politica non riesce o non vuole colmare, essendosi essa stessa ridotta a mera tecnica, e quindi a gestione del potere fine a se stessa.

Di fronte a tutto ciò, e alle inquietudini crescenti, che l’umanità si pone, e che nemmeno il ritorno alla spiritualità religiosa riesce del tutto a soddisfare, la politica ha due alternative: tornare ad un utilizzo strumentale della religione (o lasciarsi strumentalizzare dalla religione, che è sul piano pratico uguale), oppure provare in modo autonomo a dare risposte, diventando luogo dell’elaborazione di un’etica condivisa. La prima strada è quella che istintivamente intraprendono, e stanno già intraprendendo, le forze conservatrici e populiste, la seconda è quella che preferibilmente devono percorrere i democratici e i progressisti.
Ciò che non si può fare è astenersi dal confronto, non avere una propria visione, rinunciare a dare risposte. Ed esattamente ciò che ha fatto per lungo tempo il Partito Democratico italiano, più con Veltroni, che pure proveniva dalla tradizione di sinistra, che con il cattolico-democratico Franceschini (non si può non riconoscerlo). A differenza del PDL, che al contrario, nonostante i dissensi del Presidente della Camera Fini, ha sposato le tesi più oltranziste del Vaticano sulle questioni bioetiche, e costruito su questo una parte importante dei propri consensi nel mondo cattolico.

Franceschini, proprio perché cattolico, ha avuto maggiore libertà di Veltroni, in un partito ancora diviso in componenti culturalmente non comunicanti, a stabilire il principio che anche sulle questioni “eticamente sensibili” si esprimesse e decidesse a maggioranza.

Ciò tuttavia non è sufficiente ad evitare tensioni che, soprattutto se la leadership del partito tornasse nelle mani di un esponente della cultura laica di sinistra, si inasprirebbero in maniera pericolosa. A meno che il PD non sia in grado di elaborare una sintesi culturale nuova e condivisa, tra laici e cattolici, nel rapporto tra laicità ed etica religiosa. Una sintesi che tenga conto della storia italiana e della sua tradizione, con i suoi pregi e i suoi difetti.

Sono due i principali ostacoli sulla ricerca di questa sintesi: da un lato, lo scivolamento della Chiesa cattolica su posizioni sempre più integraliste e radicali, dall’altro l’appiattimento della cultura laica e di sinistra ad una visione di relativismo agnostico. L’una e l’altra visione, che attraversano il PD, costituiscono un serio impedimento all’elaborazione di una visione etica laica, che sappia tenere conto di ciò che di positivo è presente nell’etica religiosa, in particolare cristiana.
L’ostacolo più serio è però il secondo. Le posizioni integraliste in realtà hanno un seguito minoritario, seppure crescente nelle file della componente cattolica del partito, che perlopiù si colloca su una linea di laicità e di autonomia dalla Chiesa. Il vero disastro è l’atteggiamento relativista che prevale tra i laici di sinistra, che rende impossibile condurre una battaglia culturale a viso aperto nei confronti delle correnti più retrive del cattolicesimo.

Il punto di forza, infatti, del cattolicesimo più integrale sta nel rifiuto della cultura laica di confrontarsi seriamente con la questione etica, con la necessità che la società presente ha di ridefinire l’idea di ciò che è bene, l’idea stessa di verità. La cultura laica commette l’errore di ritenere che la rinuncia ad ogni assolutismo, all’idea di verità assolute, conduca alla rinuncia dell’idea stessa di verità e di bene. Con questo, accettando anche a sinistra una concezione nichilista, per cui solo l’individuo è misura per se stesso di ciò che è giusto o sbagliato. La parzialità delle idee di verità, che ciascuno di noi può mettere in campo, non può invece comportare l’abbandono della ricerca di visioni condivise del bene. La verità, ci insegna il pensiero contemporaneo più avanzato, è una costruzione dell’umanità, nel suo sforzo di interpretare e plasmare la realtà attraverso il linguaggio e l’agire sociale. Nondimeno, senza la costruzione di verità generalmente condivise, che per essere tali devono poter essere giudicate e verificate razionalmente mediante il dibattito democratico, l’umanità precipiterebbe nel caos e nell’anarchia. Che è ciò che purtroppo largamente accade del mondo. Del resto, dal punto di vista di un’etica laica razionale, che non rinuncia alla costruzione del bene, relativismo etico e integralismo sono tra loro alleati, perché il primo dichiara che tutte le verità sono egualmente false e vere, il secondo rivendica il diritto di imporre la propria verità, dato che anche l’imposizione di essa con la violenza finisce con l’essere in un mondo senza bene e senza verità un valore legittimamente perseguibile, alla pari di altri valori; entrambi, relativismo etico ed integralismo, alla fine negano la possibilità di costruire un’etica razionale condivisa, in cui tutte le diverse visioni etico-religiose possano convergere.

Il relativismo rappresenta, pertanto, un errore grave, oltre che una posizione antirazionale, che lascia libere praterie sconfinate a favore della destra conservatrice, che strumentalizza il richiamo ai valori tradizionali della religione cattolica. Ciò che è favorito, peraltro, dalla deriva attuale della Chiesa, che sempre più abbandona lo spirito conciliare e la sua vocazione universalistica, e sempre più si concepisce come minoranza, che cerca di massimizzare il suo potere di interdizione sulle questioni etiche che più le stanno a cuore. Un potere di interdizione che viene esercitato non solo su quei diritti di libertà, che entrano in contrasto con la sua predicazione, ma anche su concreti interessi materiali come i finanziamenti alle scuole private cattoliche.

Non è, quindi, affatto sufficiente l’impostazione di massima, che finora i dirigenti democratici hanno dato al problema della laicità, a partire dall’approccio della componente laica e di sinistra. L’idea che ci si possa limitare a dire che la Chiesa è libera di esprimere la propria opinione, purché non interferisca con la politica e con l’attività legislativa, è un approccio debole e perdente. La Chiesa è un soggetto politico, ed è chiaro che la sua predicazione inevitabilmente ha risvolti politici e finisce con condizionare anche le decisioni degli organi istituzionali. All’opposto, è sbagliato l’approccio di quei cattolici, che pensano che la propria funzione si riduca ad essere portavoce delle istanze delle gerarchie ecclesiastiche, e che contraddire i pronunciamenti della Chiesa sia automaticamente venire meno alla propria ispirazione cristiana. E’ un approccio che fa compiere al cattolicesimo democratico enormi passi indietro rispetto alla stessa tradizione democratico - cristiana, per la quale è sempre stato principio irrinunciabile che nell’attività politica e legislativa gli uomini politici rispondessero personalmente o collettivamente come partito alla propria coscienza di cristiani.

Il nuovo approccio possibile è accettare fino in fondo e senza remore la sfida etica che proviene dalla Chiesa e in generale dal mondo cattolico e cristiano. E farlo sulla base della ricerca di un’etica razionale condivisa, che assuma come valore la dimensione religiosa.

E’ possibile porre le basi di una simile etica condivisa? Questa è la domanda di fondo. La prima condizione è abbandonare ogni residuo relativista, ed assumere la necessità di un’etica orientata alla ricerca del bene comune, che non può pertanto fare a meno di un pensiero che cerca la verità, pur sapendo che essa non è mai assoluta ed autosufficiente. Questo significa rinunciare ad ogni pregiudizio ateo e ad ogni visione del mondo che supponga di poter fare a meno di una dimensione religiosa. Il riferimento di una rinnovata etica razionale, da questo punto di vista, continua ad essere il criticismo razionale di matrice kantiana, l’idea di una ragione che tutto sottopone a critica, compresa se stessa, anzi in primo luogo se stessa.

La ragione riconosce i propri limiti, e poiché essa è in grado di giudicare solo ciò che appartiene all’esperienza umana, che è limitata nello spazio e nel tempo (anzi spazio e tempo sono categorie prodotte dalla stessa mente umana per rendere possibile la comprensione della realtà da parte degli esseri umani), non è nelle disponibilità della specie umana, almeno allo stato attuale delle sue conoscenze, giudicare l’esistenza o meno di Dio, di un Essere Supremo trascendentale, che per definizione si pone oltre il tempo e lo spazio. Affermare l’esistenza di Dio o negarla sono giudizi egualmente non razionali, sono entrambi atti di fede su cui la ragione può interrogarsi, cercare indizi, ma mai giungere ad una verità definitiva. Ciò che invece sappiamo è che, senza una dimensione trascendente, non possiamo fondare nessuna etica, i principi morali vacillano, privi di ancoraggio. Se il destino finale di ciascun individuo è la morte, oltre cui non ci attende nulla, perché mai agire per il bene anziché per il male? Se non c’è salvezza perché vivere secondo giustizia? Rimane solo l’istinto della sopravvivenza, la volontà cieca di potenza e di sopraffazione del prossimo. Il discorso si farebbe lungo e complesso, ma per non allontanarci dal filo del nostro ragionamento, basterebbe fare questa osservazione.

Nel campo delle ideologie politiche, la religione è stata soppiantata da altre concezioni, non religiose, che hanno potuto far presa su larghe masse, a patto però di promettere in terra quella salvezza che la religione prometteva in cielo. Le utopie politiche, quelle di natura democratica e progressista, il socialismo, il comunismo, nelle loro varianti, però come abbiamo visto in precedenza sono fallite o in grave crisi. La crisi delle ideologie laiche, che sostituivano all’escatologia religiosa una salvezza terrena, ha ridato fiato e forza alle visioni religiose. Ciò dimostra che senza una prospettiva di salvezza, senza trascendenza, senza l’idea cioè di un mondo oltre quello esistente, dove i nostri sacrifici per il bene siano ricompensati, senza cioè che vi sia un fine che ciascuno di noi possa dare alla propria esistenza, non è possibile immaginare e costruire una visione etica della società. Affermare ciò non è un’ingenuità, nonostante che buona parte della modernità abbia rinunciato ad ogni idea di finalità nel mondo. D’altra parte lo stesso Nietzsche, secondo cui il mondo è privo di senso perché è un continuo ripetersi delle stesse vicende per l’eternità, però afferma che l’essere umano deve essere creatore di valori, trascendere se stesso. Il suo errore è aver concepito questa capacità creatrice dell’essere umano come legata esclusivamente ad una visione individualistica, egoistica, borghese. Nietzsche ha ragione, a voler andare nel profondo, quando afferma che la vita è volontà di potenza, ed è l’unica cosa che conta in un mondo che non ha alcun senso, se non quello che noi uomini gli attribuiamo. Ma l’unica volontà di potenza possibile è quella che ci fa appartenere all’umanità come specie, anzi come genere umano, è quella volontà di vita che ciascuno di noi afferma e sente più intensamente nell’unirsi ad un’altra persona, nel crescere i figli, nell’amore. Andare oltre il proprio ego, questa è la volontà di vita di cui l’umanità ha bisogno, quanto mai in un’epoca in cui rischiamo di autodistruggere noi stessi e il pianeta in cui viviamo, se non ci impegneremo ad andare oltre l’interesse immediato presente e a farci carico del bene delle generazioni future.
Andare oltre il proprio misero egoismo, vivere per gli altri, sentirsi parte di una comune radice umana. Questo è l’insegnamento che una moderna etica razionale deve apprendere dai messaggi delle grandi religioni monoteistiche. Dalle grandi utopie laiche, invece, bisogna apprendere il messaggio che un mondo migliore va cercato in primo luogo su questa terra e non in un'altra vita. Troppo a lungo, nei secoli, l’attesa della vita ultraterrena, in cui Dio avrebbe ripristinato la giustizia fra gli uomini, ha giustificato la sottomissione dei popoli, la prepotenza sui deboli, e l’oppressione da parte dei potenti.
In questo senso, non c’è dubbio che un ritorno ad una lettura autentica del messaggio di amore, fratellanza e giustizia contenuto nei Vangeli e nella religione cristiana è un aiuto fondamentale, per contrastare la barbarie di un mondo ingiusto, come quello che ci circonda.

Il ritorno al messaggio originario del cristianesimo ci è di aiuto, però, per un’altra ragione fondamentale, ossia per il suo contenuto antidogmatico e profondamente laico. Ciò che conta nel messaggio evangelico è l’amore verso i propri simili, il sacrificio per il prossimo e la salvezza del genere umano. E’ la fede verso Dio che si fa uomo e muore in croce per liberare l’umanità dal male del peccato. Questo è l’unico atto di fede che il cristianesimo autentico chiede, che è la prima ed unica fede religiosa ad umanizzare la divinità, e a fare dell’uomo il fine dell’uomo. “Il sabato è per il Figlio dell’uomo, non il Figlio dell’uomo per il sabato” ci dice il Vangelo, e il figlio dell’Uomo non è altro che l’umanità stessa che si incarna nel Cristo crocifisso. Quindi, per il cristianesimo autentico le istituzioni e i dogmi della religione, ma potremmo dire le stesse istituzioni del potere politico (che nella società dell’epoca si sovrapponevano alla religione) sono al servizio dell’umanità. E non a caso le pagine evangeliche sono piene di atti di ribellione verso le gerarchie e i dogmi, svuotati di ogni finalità umana e autenticamente spirituale, dagli apostoli che si nutrono nei giorni di digiuno e compiono opere di bene durante il Sabato fino alla cacciata dei mercanti del Tempio.

Nel cristianesimo originario, lungi dall’essere nemico della laicità, vi è al contrario la radice di ogni forma di umanesimo antidogmatico. Quindi, non solo il messaggio evangelico non è in contrasto con il liberalismo e con le società aperte, per usare un’espressione popperiana, ma anzi ne è una componente fondamentale, costitutiva. E’ certamente giusto dire che nessuna fede, purché vissuta con spirito di tolleranza e riconoscendo il pluralismo delle identità e il valore delle altrui fedi, non è incompatibile con la democrazia e con lo Stato laico. Non tutte le fedi però sono uguali, e non c’è dubbio che il cristianesimo, con l’idea di un Dio che si fa uomo, dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani in quanto figli di Dio, è stato decisivo per la nascita dell’individuo moderno, e non è un caso se le libertà individuali hanno trovato terreno fertile e si sono sviluppate nelle società occidentali, per poi estendersi progressivamente in altre civiltà, che però come vediamo fanno tuttora fatica ad accoglierle integralmente. Ciò non vuol dire che la fede cristiana sia l’unica via possibile per accedere all’idea di libertà e alla costruzione di società aperte; vuol dire però sicuramente che il riconoscimento della comune radice cristiana non è assolutamente un ostacolo in Occidente per il progresso delle libertà, ma anzi ne è un fattore decisivo. E’ grazie al cristianesimo che in Occidente è nata l’idea che ogni individuo risponde a Dio, e quindi al genere umano cui appartiene, delle proprie azioni nel bene e nel male, e senza tale fondamento non c’è libertà che tenga, c’è solo la negazione di qualsiasi responsabilità etica, senza di cui la libertà degenera in egoismo e individualismo sfrenato. Dunque, un’etica razionale laica non solo è compatibile con l’etica cristiana, ma non ne può fare a meno, ne ha un bisogno vitale.

Dunque, tornando al nostro Paese, non è il cristianesimo il problema. Cos’è allora che rende così difficile il rapporto tra laici e cattolici, credenti e non credenti in Italia, come in altre nazioni cattoliche? La risposta ci viene da un recente commento di Gustavo Zagrebelsky al libro intervista di Giovanna Casadio a Rosi Bindi, a proposito del rapporto tra cattolici e democrazia (La Repubblica, 6 ottobre 2009). Zagrebelsky sostiene che nessuna fede è inconciliabile con la democrazia (personalmente aggiungo, nessuna fede lo è meno del cristianesimo). Ciò che è inconciliabile è il principio di obbedienza alla Chiesa, e l’idea che sembra avvalorata dalla svolta ratzingeriana, secondo cui non obbedire alla gerarchia ecclesiastica, anche rispetto alle questioni relative alle scelte dei cattolici nella vita pubblica e in specie in quella politica, siano un atto di tradimento della fede. Zagrebelsky coglie il punto vero, e del resto è esattamente la ragione perché nella storia il cattolicesimo, nonostante il suo fondamento cristiano, è stato per molti secoli nemico della libertà. La contraddizione e la tensione tra il contenuto umano e morale del cristianesimo, che ha dato impulso alle spinte per l’affermazione della libertà, e la forma autoritaria della Chiesa, ha contrassegnato tutta la storia dei cattolici, ed è stato alla base dei movimenti ereticali e di quelli laici di riforma che l’hanno attraversata nei secoli, fino alla Riforma luterana e alla lacerazione della Chiesa cristiana, che ne è derivata. La Riforma ha messo in discussione il principio dell’autorità e dell’obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, stabilendo il principio che ciascun individuo risponde del proprio operato di fronte a Dio e alla propria coscienza, eliminando la funzione di mediazione della Chiesa. Il rapporto tra Dio e individuo diventa diretto, affermando così il primato della coscienza di ciascuno. L’affermazione e il diffondersi del protestantesimo è stata un potente impulso all’espansione delle libertà, accompagnando la nascita e lo sviluppo delle società borghesi, dei sistemi liberali e del capitalismo. Mentre la Chiesa cattolica ha continuato a considerarsi nemica delle democrazie e del liberalismo per molto tempo, fino al secolo scorso.

Il cattolicesimo, di fronte all’irrompere della società moderna, tuttavia, ha progressivamente dovuto adeguarsi.
Il modernismo, la rimozione del “non expedit” che impediva ai cattolici di partecipare alla vita politica, la nascita dei partiti democratico - cristiani hanno costituito il modo con cui i cattolici hanno potuto riconciliarsi con la moderna democrazia e con le società liberali, conquistandosi nell’arena pubblica quello spazio di autonomia che la Chiesa negava in generale agli individui nelle scelte etiche. Il partito di massa dei cattolici è stato per il nostro Paese, dove non c’è mai stata la Riforma ma solo la Controriforma cattolica con la sua presenza opprimente, ciò che il movimento luterano, calvinista, ecc., sono stati per altri Paesi europei, contribuendo ad affermare il primato della responsabilità individuale dei credenti, in relazione alla vita politica e sociale. Affermazione, che è entrata presto in conflitto con il permanere del principio di autorità della gerarchia ecclesiastica, come testimonia l’episodio delle minacciate dimissioni di De Gasperi, che nell’immediato dopoguerra si rifiutò di obbedire al Papa che voleva un’alleanza tra la DC e l’estrema destra in funzione anticomunista. Tuttavia, la forza, il radicamento e il largo consenso popolare del partito cattolico, grazie anche alla larga rete di associazioni e organizzazioni collaterali presenti nella società civile, sono stati nel corso della storia repubblicana un argine e una garanzia di autonomia efficace, fino a quando è durato. Venuta meno la DC, l’argine è crollato e si è riproposta la tensione per i cattolici impegnati nella vita pubblica tra libertà etica e obbedienza. La svolta conservatrice della Chiesa negli ultimi anni ha aggravato ulteriormente la situazione.

Del resto, la potenza della scienza, che ormai mette in condizione gli esseri umani di avere molte più possibilità di scelta sulla vita e la morte, mina alle fondamenta non l’etica cristiana in quanto tale, ma per l’appunto il principio di autorità della Chiesa, che per questo si sente minacciata nella sua stessa ragione di esistenza. E questo non fa che accrescere la contraddizione tra etica laica e autorità ecclesiastica. L’errore che una parte dei non credenti e i “laicisti” commettono è pensare che il conflitto sia tra etica laica e fede religiosa, mentre il conflitto è tra l’etica stessa, se l’etica è intesa come responsabilità degli individui verso se stessi e verso gli altri, e principio di autorità della Chiesa, che si sente messa in discussione.

Non c’è nessuna pagina evangelica, nessun contenuto della fede cristiana, che proibisca alle persone di scegliere liberamente sul proprio corpo e sulla propria vita, di adottare il testamento biologico, di ricorrere alla fecondazione assistita o alla pillola RU486, etc. L’unico limite che il cristianesimo pone è il rispetto della vita umana propria e altrui, ma la collocazione di tale limite non può essere stabilito una volta per tutte, ma solo caso per caso dalla coscienza individuale, perché il continuo progresso della scienza, a velocità in passato impensabili, rende peraltro impossibile stabilire una volta per sempre ed in modo dogmatico quali siano i confini invalicabili di ciò che è eticamente ammissibile. Questa è, tuttavia, per l’appunto la realtà che la Chiesa non vuole accogliere, perché non vuole accettare che siano gli individui a decidere; ciò mina, infatti, alla radice la sua autorità.

Eppure, per un’etica razionale, che tenga conto dell’ispirazione cristiana, riconciliare fede e scienza non è impossibile. La scienza moderna è potuta nascere in Occidente proprio perché c’è stato il cristianesimo, perché Cristo ha insegnato alla nostra civiltà ad avere fede nell’uomo, immagine di Dio, e nella sua possibilità di vincere il peccato, il male, e con esso la morte. Senza la novità sconvolgente, la buona novella, della Resurrezione, e ciò che essa ha prodotto nei secoli nel modo di pensare degli europei e degli occidentali, la scienza moderna non sarebbe mai arrivata ad osare ciò che ha osato in questi secoli, fino ad arrivare a scoprire e dominare l’origine stessa della vita. Se ciò è accaduto qui da noi, nel modernissimo Occidente, è proprio perché siamo dentro la civiltà cristiana, la civiltà che più di tutte ha esaltato la volontà di potenza del genere umano, come genere capace di dominare la natura, la vita e la morte. E’ una verità che sconvolge, cui la Chiesa non riesce ancora ad adattarsi, ma che prima o poi dovrà accettare. Da qui, nasce il conflitto non tra scienza ed etica, non tra scienza e fede, ma tra scienza e principio di autorità, tra etica e obbedienza.

Non voglio sostenere che senza la Chiesa vivremmo in una società migliore; la Chiesa cattolica svolge una funzione morale fondamentale per la coesione sociale, per mantenere e ricreare il senso della comunità tra le persone, e come tutte le strutture politiche essa deve avere una sua gerarchia e una sua disciplina. Nelle nazioni in cui la sua influenza è minore, esistono sì società più aperte e dinamiche, ma anche più attraversate dall’individualismo esasperato, lacerate, frantumate; la Chiesa cattolica dove è forte la sua presenza svolge una funzione di contenimento delle spinte disgregative delle famiglie e delle comunità, che sarebbe sciocco ignorare.
E del resto essa ha anche saputo nei decenni più recenti evolvere ed adeguarsi; il Concilio Vaticano II aveva saputo recepire molte innovazioni e trasformazioni che si erano prodotte nel seno della comunità cristiana di matrice cattolica, riconoscendo ai cattolici laici un ampio spazio di autonomia nella sfera pubblica. La recente involuzione conservatrice della Chiesa ha portato ad un ridimensionamento di questa autonomia; minacciata anch’essa nelle sue fondamenta dalla società globalizzata e dalla sempre maggiore accresciuta potenza della scienza e della tecnica, come ho già evidenziato, essa ha reagito serrando i ranghi e pretendendo un’adesione indiscussa alla sua dottrina, soprattutto nel campo della bioetica dove il contrasto tra libertà di scelta degli individui e autorità religiosa diventa più acuto.

E ciò nel nostro Paese, per la sua storia e tradizione, ha risvolti politici assai più drammatici che in altre nazioni occidentali.

Senza più l’argine della Democrazia Cristiana, lo Stato laico sembra scosso dalla continua tentazione della Chiesa di intervenire direttamente nella vita pubblica, orfana della mediazione del partito cattolico. I piccoli partiti di ispirazione cattolica, come l’UDC, sono ridotti a megafoni ininfluenti della voce vaticana, e sull’uso strumentale della religione da parte della destra mi sono già soffermato.

La via per i cattolici democratici del recupero dell’autonomia politica è la costruzione di un partito non più confessionale, di laici e cattolici professanti, di credenti e non credenti. Il ritorno all’unità dei cattolici è una via preclusa, che appartiene ad un’altra fase storica, non più riproponibile. Il Partito Democratico è il tentativo più avanzato, mai fatto nella storia del nostro Paese, di abbattere il muro tra “guelfi e ghibellini”, che ha contrassegnato la storia italiana. La costruzione di un’etica laica condivisa è la condizione del successo di questo tentativo. I laici di sinistra, per riuscirci, devono rinunciare ad ogni relativismo agnostico, e riconoscere l’imprescindibilità della dimensione trascendente e religiosa, come fondamento di un’etica razionale. I cattolici da parte loro devono abbandonare definitivamente ogni principio di obbedienza e diventare fino in fondo, per usare un’espressione famosa di Romano Prodi, “cattolici adulti”.

Solo così la sintesi tra laici di sinistra e cattolici sarà possibile all’interno dello stesso partito. Una sintesi tra agnostici e cattolici obbedienti è assolutamente impraticabile, per non dire impossibile, non porterebbe ad alcuna conclusione credibile. L’unica sintesi possibile sarebbe quella di dire, ognuno la pensi come vuole e la Chiesa sia libera di dire ciò che gli aggrada, poi noi ci regoleremo ognuno per conto proprio. Ed è quello che è successo finora nel PD, con tutte le conseguenze del caso e le fibrillazioni che ne sono scaturite. Ciò che invece è praticabile è la sintesi tra laici non credenti, la cui ricerca sia orientata al vero e al bene, non separata dalla dimensione trascendente, sia essa pure costituita dalla fede nell’umanità, e laici cattolici non obbedienti, ossia che rivendicano e praticano la propria autonomia politica dai dettami della Chiesa.
Da questo punto di vista, l’appello di Ratzinger ai non credenti a vivere come se Dio esistesse, è un invito da accogliere perché razionalmente fondato, come sostiene anche la Bindi nel suo libro-intervista. Senza un riferimento trascendente si piomba solo nel cinismo e nell’indifferenza. A tale appello dovrebbe però corrispondere, una volta accolto, un contro invito da parte dei laici non credenti ai credenti a vivere, nella vita politica e sociale, come se non ci fosse un vincolo di obbedienza all’autorità religiosa.

Certo, l’Italia non è la Germania, né l’Olanda, e neppure la Francia e la Spagna, e quindi non si potrà mai prescindere, almeno per i prossimi secoli, dalla presenza della Chiesa cattolica e dal suo ruolo anche come soggetto politico. Un partito laico di credenti e non credenti, che si base su un’etica razionale condivisa, può tuttavia ricreare un argine all’invadenza della Chiesa nella sfera pubblica, che nella prima repubblica era stato rappresentato dal partito dei cattolici democratici. Un tale partito potrà e dovrà aspirare ad essere il partito maggioritario tra i cattolici. Il rapporto tra Stato e Chiesa tornerà ad essere a quel punto una questione di diplomazia, così come lo è stato nei 50 anni di egemonia democristiana. Il Partito Democratico dovrà ricercare un dialogo con la Chiesa - i compromessi saranno necessari, salvaguardando le libertà civili e la laicità dello Stato - e lo potrà fare su un piano di parità e di rispetto reciproco.

BREVE SAGGIO. TERZA PARTE

UN NUOVO PENSIERO

In quasi tutti i documenti ufficiali del PD, a partire dal Manifesto fondativo, si fa riferimento alla necessità di un Nuovo Pensiero. Sono assolutamente d’accordo. Ciò che non ho mai visto esplicitato sufficientemente è quale tipo di pensiero, elaborato sulla base di quali fonti, e affrontando quali questioni concrete, dato che un pensiero che sia astratto dalle questioni concrete, che le persone vivono rischia di essere mera declamazione di princìpi, pura retorica.

Questo pensiero, per cominciare a rispondere alla prima domanda, dovrà essere di tipo filosofico, scientifico, etico, economico, giuridico? Nei nostri tempi, è ormai prevalente il sapere specialistico. La nostra epoca è stata definita l’epoca del dominio della tecnica, e se è il sapere tecnico, la tecnologia a dominare la conoscenza, il pensiero non può che ridursi ad una somma di conoscenze empiriche e specialistiche. Tuttavia, la realtà è una, ed una politica che vuole governare e trasformare la realtà non può ridursi ad essere tecnica. La politica ridotta a tecnica è una politica senza anima, strumento di dominio di un ceto privilegiato, semplice gestione del potere. La politica con la P maiuscola, quindi, sarà necessariamente frutto di una sintesi delle varie forme di sapere e di scienza, dovrà assumere la forma di sapere filosofico, essere un’applicazione della filosofia alla realtà. La filosofia, intesa come scienza generale del sapere, è infatti per definizione il tentativo di portare a sintesi tutto il sapere umano. E l’umanità, che tenta di liberarsi del dominio della tecnica e riappropriarsi del proprio destino, di fronte a pericoli quali il surriscaldamento del clima e il potenziale estinguersi della vita umana stessa, tornerà e sta tornando a riscoprire il valore del pensiero filosofico.

La negazione della filosofia, la sua morte, è stata dichiarata nel corso del secolo passato come effetto dell’affermazione del pensiero positivista e neo positivista, che appunto ha gradualmente ridotto la filosofia a linguaggio, ad una specie di matematica del pensiero. Anche la vulgata marxista, che interpretava le sovrastrutture come falsa coscienza, come illusione, poiché l’unica realtà vera è la struttura economica, l’attività pratica attraverso cui gli uomini producono beni economici e riproducono la propria esistenza, ha contribuito al declino della filosofia. Ma fu proprio un marxista innovativo ed “eretico” come Gramsci nei suoi Quaderni a spiegarci che la sovrastruttura non può intendersi come pura apparenza, perché è attraverso di essa che l’umanità prende coscienza della realtà in cui vive. Filosofia e politica per Gramsci erano la stessa cosa, perché se compito dei filosofi è non limitarsi ad interpretare la realtà, ma trasformarla, secondo il celebre aforisma di Marx, la filosofia per eccellenza non può che essere attività politica, ossia attività pratica che plasma la società attraverso l’azione collettiva degli esseri umani associati. La politica diventa per l’appunto l’anello di congiunzione tra la realtà economica e sociale e il pensiero umano, che si influenzano a vicenda. La realtà materiale, la struttura, agisce sul pensiero, che ne viene forgiato, ma a sua volta il pensiero umano, in tutte le sue forme, agisce sulla realtà modificandola.

Oggi non abbiamo le speranze e le certezze rivoluzionarie di Gramsci, che pure elaborava le sue teorie tra le mura di un carcere dove fu rinchiuso dal fascismo, ma non possiamo rinunciare all’idea di una politica che cambia la società, che non sia strumento nelle mani di pochi. Ed una politica siffatta deve fare i conti con il pensiero umano, con ciò che esso ha prodotto nella civiltà in cui viviamo.

L’altra domanda da porsi è quindi quali sono le fonti, i riferimenti del pensiero, del sapere filosofico di cui il PD deve dotarsi? Certamente, non si può pensare oggi che un partito abbia un’unica dottrina, un dogma cui riferirsi. Ciascun singolo militante, dirigente, avrà le sue preferenze filosofiche. E’ importante che in un partito tuttavia sia presente un dibattito teorico rigoroso, che faccia i conti con i principali filoni filosofici esistenti, e che si cerchi continuamente una sintesi tra i diversi approcci, secondo un metodo scientifico. Ciò che la filosofia e la scienza moderne più avanzate ci insegnano, innanzi tutto, è che le conclusioni cui la conoscenza ci conduce non sono mai definitive, devono continuamente essere sottoposte a critica e verifica. Nondimeno, il pensiero di un partito, che va considerato come un vero e proprio organismo pensante collettivo, dovrà avere una sua coerenza interiore, una sua sistematicità, dovrà cioè essere in grado di arrivare attraverso il dibattito, sulle questioni specifiche e su quelle più generali, a conclusioni generalmente condivise, per quanto non definitive, elaborate attraverso il metodo dell’analisi e della verifica. I riferimenti quindi saranno plurali, ma la scelta dei pensatori e dei filoni cui rivolgersi non può essere casuale. Anche la scelta in questo caso ha un significato politico. Un partito che voglia essere democratico, progressista, ambientalista, sceglierà come riferimenti intellettuali e correnti di pensiero, cui attingere, che abbiano lo stesso orizzonte di valori, approcciandosi ad essi in modo critico. Senza rinunciare allo studio e alla critica anche dei pensatori e degli intellettuali “avversari”, che spesso è altrettanto utile della conoscenza delle fonti “amiche”.

La scelta non dovrà essere casuale soprattutto per un’altra ragione.

Lo sforzo dei dirigenti e degli intellettuali, che collaborano con il partito sarà quello di ricercare ciò che a livello non solo nazionale ma principalmente a livello mondiale, il pensiero offre di più avanzato. Come lo si stabilisce? Il criterio dovrà essere scientifico anche in questo caso: con rigore si dovrà rintracciare quali siano gli approcci culturali e filosofici che hanno risolto o possono contribuire a risolvere i problemi concreti più attuali, che offrono le soluzioni più utili e più funzionali secondo gli obiettivi che il partito si propone. In campo scientifico, è molto facile stabilire che la fisica fondata sulla relatività e sulla quantistica è più avanzata di quella newtoniana. In campo politico, è più difficile, ed il parametro, il criterio di riferimento non può che essere dato dagli scopi che il partito si propone (un partito che vuole combattere il surriscaldamento del clima, ritenendo che ciò sia prioritario, certo non si rivolgerà a studiosi che negano l’esistenza del problema; un partito che è per l’integrazione delle etnie e delle religioni diverse all’interno dello stesso Stato prediligerà filosofi e sociologi che sostengono la società multietnica e ne dimostrino la necessità e l’opportunità, ecc.). Del resto, nella stessa scienza, che non è anch’essa scevra del tutto da condizionamenti ideologici, da orientamenti etici e così via, le teorie elaborate dai diversi scienziati sono sottoposte nelle riviste più autorevoli e nei convegni ad esame, confutazione, confronto. Non di rado, teorie stroncate dalla maggioranza degli scienziati dopo qualche anno o persino decennio si sono rivelate invece più veritiere ed efficaci. Lo stesso metodo dovrebbero darsi i partiti, dotandosi degli strumenti idonei (riviste, fondazioni, ecc.), applicandolo con rigore e serietà e investendo risorse nella ricerca e nella formazione.
C’è da dire che quasi tutti i maggiori partiti dell’Occidente si dotano di tali strumenti ed hanno importanti fondazioni di riferimento, o direttamente collegate al partito come avviene in Germania o di area come avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti. Anche se quasi sempre la loro elaborazione rimane patrimonio di pochi intellettuali, spesso poco ascoltati. Nel PD esiste una pluralità di Fondazioni, che non operano tuttavia secondo un metodo organico e spesso sono strumenti al servizio di correnti personalistiche.

Rigore intellettuale, ricerca, metodo scientifico, dibattito libero costituiscono le condizioni di un approccio che consenta ad un partito di dotarsi di un pensiero coerente, di non far scadere il pluralismo in eclettismo vuoto e inconcludente.

Fatta questa premessa, e cioè che l’elaborazione di una filosofia, di una specifica concezione del mondo, non può esimersi da un approccio sistematico e coerente, diventa evidente che la scelta dei riferimenti culturali del pensiero democratico non può che essere conseguenza di un’attenta individuazione, come vero e proprio atto propedeutico, delle questioni principali e generali che la politica deve affrontare nell’epoca attuale. Provo ad indicarne alcune:

- Il rapporto tra scienza e etica che oggi è la questione delle questioni che l’umanità ha di fronte. E collegato a ciò, il rapporto tra scienza, politica e fedi religiose con il risorgere dei fondamentalismi e degli integralismi.

- La crisi economica mondiale, che è conseguenza della separazione tra economia finanziaria e economia reale, la sempre maggiore divaricazione tra redditi da capitale e redditi da lavoro.

- Il surriscaldamento del clima e la questione ambientale che mettono a repentaglio la sopravvivenza stessa della specie umana sulla terra.

Tuttavia, al fondo di tutto questo c’è lo sviluppo dell’economia globale, questa nuova gigantesca fase di mondializzazione del mercato che è seguita alla rivoluzione neoliberista a cavallo tra gli anni settanta e ottanta. Il crollo del blocco socialista e l’affermazione del modello occidentale come unico modello dominante, e poi il grande cambiamento tecnologico derivante dall’informatica, hanno costituito un ulteriore fattore propulsivo, che ha potentemente accelerato la globalizzazione dell’economia. I grandi problemi che prima citavo in fondo non sono che effetti di questa trasformazione. L’economia, la scienza e la tecnica sono diventate grandi potenze globali, in conseguenza della vittoria e della diffusione su base mondale, senza più alcun ostacolo, dell’economa di mercato capitalistica, mentre la politica, la democrazia, il lavoro, in poche parole le persone continuano a vivere e ad agire su base locale e nazionale, fatta eccezione per una ristretta èlite che ha i mezzi economici e cognitivi per assurgere al rango di ceto dominante globale: la classe dei nomadi, come l’ha definita Attali. Questa classe detiene le leve del potere finanziario, mediatico, culturale, possiede ingenti ricchezze che spesso sfuggono alle tassazioni nazionali, perché collocate sui mercati azionari o persino nei cosiddetti paradisi fiscali. E il suo potere è quindi un potere globale che sta sopra i singoli Stati nazionali.
Da questo fenomeno deriva la scissione tra l’economia finanziaria, che è alimentata dai capitali di questa classe dominante nomade, e l’economia reale, costituita dalle imprese e dai lavoratori stanziali, su cui si scaricano i costi delle ripetute crisi economiche alimentate dalle bolle speculative finanziarie.
Dal dominio della scienza e della tecnica come grandi forze globali, che condizionano la vita delle persone spesso senza la capacità di dare senso e significato ad essa, deriva la reazione fondamentalista delle grandi religioni, non solo di quella islamica. Così come sono i fenomeni migratori di massa, effetto dell’economia globale e delle gravi disparità che attraversano il mondo, a determinare nei paesi occidentali rigurgiti di razzismo, xenofobia e rifiuto delle diversità culturali.
Ed infine la questione climatica è evidentemente la conseguenza di un modello economico, tecnologico ed energetico che, una volta diffusosi in tutto il pianeta, diventa insostenibile per il suo impatto sulla biosfera e sul clima.

E’ quindi sulla capacità di leggere la società globale e rispondere alle trasformazioni che essa determina che si misura la validità di una nuova concezione del mondo, e su cui è necessario giudicare ciò che di vivo e di morto c’è nel pensiero moderno.
Il Partito Democratico dovrà chiedersi se esiste una filosofia democratica attuale, che si sia misurata con tali questioni. Tale ricerca non potrà che rivolgersi innanzi tutto verso il pensiero liberale, che dopo la sconfitta storica dei sistemi politici di ispirazione socialista risulta essere la cultura dominante nel mondo attuale. Non ovviamente a quel filone del pensiero liberale, che ha concepito l’affermazione del neoliberismo e la sconfitta del socialismo reale come Fine della Storia, e che ha di conseguenza considerato il libero mercato come unico modello storicamente possibile. Tale idea, che è stata denominata Pensiero Unico, non fa i conti e anzi si rifiuta di farli con le contraddizioni della società globale, ed è oggi messa in discussione dall’evidenza della crisi non solo economica ma di egemonia del modello occidentale. Esiste tuttavia da tempo un filone che potremmo definire democratico - liberale e neoilluminista, che si interroga su come conciliare capitalismo e democrazia, liberalismo e giustizia sociale. Questo filone oggi si rende conto che la grande questione da porsi è come sia possibile globalizzare la democrazia, cioè fare in modo che alla globalizzazione del mercato corrisponda la creazione di una sovranità democratica post nazionale.

Ci sono alcuni riferimenti a mio avviso essenziali da questo punto di vista, anche se il numero di intellettuali che su questo tema si è interrogato è assai ampio, e c’è solo l’imbarazzo della scelta.

In primo luogo Jurgen Habermas, con la sua idea di un patriottismo costituzionale, che nasca dall’etica del discorso e dall’agire comunicativo, ha consentito al pensiero democratico liberale di assumere la sfida del multiculturalismo e della crisi delle democrazie nazionali. Nella concezione di Habermas tutte le posizioni filosofiche, etiche e religiose sono legittime e possono partecipare all’arena democratica, purché rinuncino ad imporre la propria verità e accettino alcune regole procedurali che consentono il libero confronto e la condivisione delle conclusioni cui si giunge attraverso il confronto delle idee. In tal modo, le visioni ideologiche e religiose differenti non solo non rinunciano a se stesse, ma diventano un valore positivo per la democrazia, perché contribuiscono ad innervare il dibattito pubblico e ad orientarlo secondo convincimenti etici profondi. Le deliberazioni assunte nell’arena democratica non saranno il risultato della semplice ricerca dell’interesse e della convenienza dei più, ma la sintesi più alta possibile delle diverse idee di ciò che è meglio per tutti. Questo rende anche possibile la nascita di una democrazia post-nazionale, in cui le differenze etniche, culturali e di nazionalità non diventino ostacolo alla formazione di un vero e proprio patriottismo di nuovo tipo, non più su basi nazionali, ma forgiato dalla possibilità per ognuno di riconoscersi in un organismo etico complesso, in cui le proprie verità siano accolte e integrate, e che assicuri a ciascun cittadino la possibilità di coltivare il proprio bene individuale così come quello collettivo.

Accanto ad Habermas, un riferimento essenziale è il filosofo ed economista indiano Amartya Sen, che è riconosciuto come il teorico dell’eguaglianza. Con la sua concezione dell’eguaglianza come insieme delle possibilità e delle capacità, che la società consente all’individuo di esercitare concretamente, non solo ha il merito di aver tolto questo valore fondante per tutte le ideologie democratiche e progressiste dal fumo del’astrazione e delle utopie impossibili, ma lo ha anche universalizzato, reso compatibile con le diversità culturali di un mondo sempre più integrato. Se l’uguaglianza è data dall’uguale possibilità di scelta di ciascun individuo è evidente che tra queste possibili scelte c’è anche quella di poter vivere la propria identità, senza sopraffare il prossimo.

Un altro intellettuale che in questi anni ha aiutato me e molti altri a comprendere i fenomeni culturali e politici connessi alla globalizzazione è il sociologo tedesco Ulrich Beck, punto di riferimento in particolare degli ambientalisti e delle correnti più innovative del pensiero progressista. Secondo Beck, la società contemporanea è una società del rischio globale: i grandi pericoli che il mondo deve affrontare, dal surriscaldamento del clima al terrorismo internazionale, mettono in crisi le certezze tradizionali. Nessuno cittadino è al sicuro nei recinti degli Stati nazione, che non sono più in grado da soli di fronteggiare tali sfide. Solo un nuovo cosmopolitismo, ossia la costruzione di una cittadinanza globale responsabile, ed il rovesciamento della classica impostazione del realismo politico, attraverso l’assunzione del principio che non esistono più tante politiche estere dei singoli Stati ma una sola politica interna mondiale, possono metterci nelle condizioni di fare i conti con le incertezze e le insicurezze della società globale.

Finisco qui un elenco che altrimenti potrebbe essere infinito, ma questi esempi importanti stanno a dimostrare come la parte più vitale del pensiero liberale e democratico, cui il Partito Democratico deve fare riferimento, sia quella che ha dato risposte in termini positivi alle nuove sfide della globalizzazione, interrogandosi sulle condizioni per cui sia possibile universalizzare e globalizzare la democrazia.

Ma la ricerca di ciò che c’è di vitale nel pensiero democratico moderno non può fermarsi qui, e deve saper individuare anche i punti critici. Il punto critico fondamentale di queste visioni neo illuministe, se così mi si consente di chiamarle, sta nel fatto che non tengono conto che il modello democratico - liberale, lungi dall’essere qualcosa di sempiternamente valido e riconosciuto come tale, è in realtà un prodotto storicamente determinato della civiltà occidentale. Esistono civiltà nel mondo, visioni filosofiche e religiose, che non accolgono la verità di questo modello e non sono disponibili ad accettare nemmeno la condizione habermasiana di verità parziali, che concorrono a definire attraverso il libero confronto un’idea superiore di verità condivisa.
I neoilluministi all’Habermas hanno in poche parole il difetto di essere fin troppo cosmopoliti, e di presupporre un’unificazione del mondo che, seppure spinta in avanti dalla globalizzazione, rappresenta una prospettiva tutta da realizzare, che per ora deve fare i conti con divisioni storiche profonde, derivanti dalle rivalità nazionali, dalle disparità nelle condizioni di vita, dalle resistenze culturali che persistono nel mondo, pur profondamente trasformato e dominato dalla civiltà occidentale.

A questa visione neoilluminista e neokantiana dell’universalità dei valori di libertà e uguaglianza, dei diritti umani, fa da contraltare nel dibattito contemporaneo la filosofia cosiddetta comunitarista, che cerca invece di mettere in risalto il valore delle comunità, delle tradizioni condivise come argine al dominio della società globale, che genera spaesamento, perdita delle radici e quindi di ogni dimensione etica del vivere civile. E’ un approccio, che pur avendo seguaci persino nell’area progressista, in realtà finisce con il legittimare i leghismi vari, le pulsioni neonazionaliste e populiste.

Tra queste due visioni, credo sia possibile una terza via, in cui forse la cultura italiana che da decenni non esprime nulla di originale nel dibattito internazionale può dire la sua, se ritrova le sue radici profonde e le proietta nel nuovo mondo.
C’è da riscoprire e rielaborare, alla luce dei cambiamenti epocali del mondo attuale, la tradizione storicista italiana. Infatti, è dai tempi di Croce e Gramsci che l’Italia non esprime più pensatori in grado di influire sul pensiero europeo e mondiale. Benedetto Croce, il grande filosofo abruzzese, massimo esponente dell’idealismo italiano, è stato uno dei più influenti intellettuali nell’Europa della prima metà del secolo scorso. Poi è letteralmente scomparso dal dibattito culturale europeo nel secondo dopoguerra, mentre l’influenza di Antonio Gramsci e dei suoi Quaderni del carcere è progressivamente cresciuta nei decenni successivi, ed è oggi l’intellettuale italiano più conosciuto, studiato e dibattuto all’estero, anche se trascurato in patria, o almeno non studiato come meriterebbe per il suo peso nella cultura mondiale. Ma Gramsci senza Croce non è pensabile. Gramsci è null’altro che il continuatore della tradizione storicista italiana, che oltre al Croce ha i suoi antecedenti in Antonio Labriola, De Sanctis, Spaventa e si potrebbe risalire fino a G.B. Vico. Un continuatore che ovviamente ha però profondamente riformato e modernizzato il pensiero storicista, mantenendone intatto il nucleo di fondo: la natura umana non è altro che il suo sviluppo storico. Non esistono modelli economici, dottrine, filosofie, validi una volta per sempre. L’agire umano, che è un agire sociale, modifica i modi di pensare, le forme culturali, le stesse strutture economiche e sociali secondo le proprie esigenze, che mutano nel tempo e nello spazio, diventando progressivamente più complesse ed evolute. Questi mutamenti non avvengono casualmente, ma secondo leggi storiche che non sono però meccaniche, cioè frutto di automatismi; gli uomini non sono automi, ma è la loro volontà, non quella dei singoli, ma quella collettivamente organizzata, a determinare e forgiare mediante il proprio agire tali leggi storiche, secondo che le diverse volontà si combinino, si aggreghino o entrino tra loro in contrasto. Alcune di queste leggi Gramsci le condensa nel concetto di egemonia, ossia nella constatazione che sono sì le classi dominanti sul piano economico, come aveva osservato Marx, a condizionare l’organizzazione delle società umane, ma che questo dominio si stabilizza e si regge fino a quando le classi dominanti riescono ad essere egemoni, cioè a costruire un sistema di consenso nella società, e quindi a dominare non solo la struttura produttiva ma anche il modo di pensare, non solo gli interessi materiali ma anche le coscienze delle persone. E questo attraverso un complesso apparato di potere, in cui un ruolo decisivo è svolto dai ceti intellettuali.

Ritornare a Gramsci, quindi. Il Gramsci che tuttavia serve non è il santino cui è stato ridotto dalla sinistra italiana, che spesso si è cullata nel proprio provincialismo presupponendo una qualche sua superiorità culturale, solo perché figlia di un pensiero gramsciano, che in realtà si è smesso di studiare e di aggiornare alla luce dei cambiamenti epocali degli ultimi decenni. Come se rifarsi a Gramsci bastasse per capire il mondo di oggi, peraltro profondamente diverso da quello in cui egli viveva. Ciò che dobbiamo riprendere da lui invece è il metodo, l’approccio integralmente storicista e quindi antidogmatico, la curiosità verso il mondo: il Gramsci che si interessa della storia degli intellettuali del Giappone, dell’America Latina, del mondo arabo. Il Gramsci che intuisce la forza modernizzatrice dell’americanismo e del fordismo.
Insomma, è inutile tornare a Gramsci se non si accompagna il recupero del suo pensiero con il confronto delle correnti di idee del mondo attuale, se anche in questo caso non facciamo un’opera di selezione di ciò che è ancora vivo rispetto a ciò che non è più riutilizzabile.

Ma non è questa la sede per una ricostruzione circostanziata del pensiero gramsciano. Ciò che qui interessa è che la sua visione storicista ci aiuta a comprendere meglio cos’è la globalizzazione e la natura della sua crisi attuale, che non è altro che l’ultima manifestazione di ciò che il pensatore sardo aveva individuato come la principale contraddizione del capitalismo contemporaneo: il cosmopolitismo dell’economia ed il nazionalismo della politica. La crisi della globalizzazione non è altro che la risultante dell’apogeo prima e del declino poi del capitalismo occidentale sul piano globale, della sua incapacità di governare le trasformazioni cui ha dato luogo, della sua crescente impossibilità di soddisfare le necessità dei nuovi protagonisti che esso stesso ha suscitato, rendendo partecipi del benessere economico milioni di essere umani che per secoli e secoli ne erano rimasti fuori. Il suo dominio mostra il fiato corto, perché non riesce più a generare un consenso prevalente attorno a sé, non riesce ad esercitare ciò che oggi gli americani chiamano il soft power, che non è come qualche intellettuale neo con semplicione vuole fare credere la sostituzione della forza delle armi con l’influenza dei McDonald’s e della pop music. Il soft power, che è una categoria che i politologi americani hanno coniato di recente, mutuandola in parte dall’elaborazione di Gramsci, ormai più studiato e conosciuto in America che in Italia, si ha quando alla pura forza coercitiva si sostituisce l’adesione spontanea e cosciente ad un ordine superiore, in grado di soddisfare l’interesse e le esigenze non solo dei gruppi sociali o delle nazioni dominanti, in questo caso occidentali, ma della maggioranza se non della totalità dei gruppi sottoposti o delle altre nazioni. Questo spiega perché oggi ci sia una crisi di consenso del modello occidentale, che non riesce a soddisfare l’esigenza di sviluppo della stragrande maggioranza delle popolazioni.

La visione storicista, che ci viene da pensatori come De Sanctis, Croce, Gramsci, ma anche da importanti filosofi contemporanei come Rorty, ultimo esponente di punta del pragmatismo americano, ci consente soprattutto di capire come siano prive di senso sia la pretesa di imporre al resto del mondo i modelli culturali, politici e sociali delle democrazie occidentali, e sia la visione secondo cui sarebbe vano sperare in un’evoluzione in senso democratico di paesi appartenenti ad altre civiltà. Nessuna civiltà storicamente determinata è immodificabile, nessuno può escludere che i popoli islamici o gli stessi cinesi, che non hanno mai conosciuto sistemi democratici di governo nella loro storia plurimillenaria, possano sviluppare forme proprie di democrazia, così come hanno fatto i popoli occidentali, ed è anzi ragionevole pensare che quanto più progressivamente queste civiltà si integreranno nella società globale tanto più questa evoluzione sarà necessaria. Ciò che sta accadendo in Iran, e persino le tensioni etniche e sociali che ci sono in Cina, ne sono una dimostrazione: i popoli di cultura islamica, così come i popoli asiatici, che vivono sotto regimi autoritari e che hanno la possibilità di accedere soprattutto tramite internet alle stesse informazioni di qualsiasi cittadino occidentale, e possono confrontare le loro condizioni di vita con quelle di cittadini di altri paesi democratici, sempre più rifiutano, soprattutto donne e giovani, di continuare a subire condizioni di minorità e privazioni di libertà essenziali altrove consentite (esprimersi, istruirsi, dissentire, decidere, ecc.), e quando possono si ribellano. Seguiranno la loro strada, imporre loro la nostra è sbagliato e non produttivo, anche se senza dubbio la globalizzazione e l’influenza della civiltà occidentale potranno aiutarli. A patto però che questa sappia sostituire, come ebbe a dire Bill Clinton nel suo discorso all’ultima Convention democratica, al potere della forza il potere dell’esempio.