sabato 5 dicembre 2009

BREVE SAGGIO. TERZA PARTE

UN NUOVO PENSIERO

In quasi tutti i documenti ufficiali del PD, a partire dal Manifesto fondativo, si fa riferimento alla necessità di un Nuovo Pensiero. Sono assolutamente d’accordo. Ciò che non ho mai visto esplicitato sufficientemente è quale tipo di pensiero, elaborato sulla base di quali fonti, e affrontando quali questioni concrete, dato che un pensiero che sia astratto dalle questioni concrete, che le persone vivono rischia di essere mera declamazione di princìpi, pura retorica.

Questo pensiero, per cominciare a rispondere alla prima domanda, dovrà essere di tipo filosofico, scientifico, etico, economico, giuridico? Nei nostri tempi, è ormai prevalente il sapere specialistico. La nostra epoca è stata definita l’epoca del dominio della tecnica, e se è il sapere tecnico, la tecnologia a dominare la conoscenza, il pensiero non può che ridursi ad una somma di conoscenze empiriche e specialistiche. Tuttavia, la realtà è una, ed una politica che vuole governare e trasformare la realtà non può ridursi ad essere tecnica. La politica ridotta a tecnica è una politica senza anima, strumento di dominio di un ceto privilegiato, semplice gestione del potere. La politica con la P maiuscola, quindi, sarà necessariamente frutto di una sintesi delle varie forme di sapere e di scienza, dovrà assumere la forma di sapere filosofico, essere un’applicazione della filosofia alla realtà. La filosofia, intesa come scienza generale del sapere, è infatti per definizione il tentativo di portare a sintesi tutto il sapere umano. E l’umanità, che tenta di liberarsi del dominio della tecnica e riappropriarsi del proprio destino, di fronte a pericoli quali il surriscaldamento del clima e il potenziale estinguersi della vita umana stessa, tornerà e sta tornando a riscoprire il valore del pensiero filosofico.

La negazione della filosofia, la sua morte, è stata dichiarata nel corso del secolo passato come effetto dell’affermazione del pensiero positivista e neo positivista, che appunto ha gradualmente ridotto la filosofia a linguaggio, ad una specie di matematica del pensiero. Anche la vulgata marxista, che interpretava le sovrastrutture come falsa coscienza, come illusione, poiché l’unica realtà vera è la struttura economica, l’attività pratica attraverso cui gli uomini producono beni economici e riproducono la propria esistenza, ha contribuito al declino della filosofia. Ma fu proprio un marxista innovativo ed “eretico” come Gramsci nei suoi Quaderni a spiegarci che la sovrastruttura non può intendersi come pura apparenza, perché è attraverso di essa che l’umanità prende coscienza della realtà in cui vive. Filosofia e politica per Gramsci erano la stessa cosa, perché se compito dei filosofi è non limitarsi ad interpretare la realtà, ma trasformarla, secondo il celebre aforisma di Marx, la filosofia per eccellenza non può che essere attività politica, ossia attività pratica che plasma la società attraverso l’azione collettiva degli esseri umani associati. La politica diventa per l’appunto l’anello di congiunzione tra la realtà economica e sociale e il pensiero umano, che si influenzano a vicenda. La realtà materiale, la struttura, agisce sul pensiero, che ne viene forgiato, ma a sua volta il pensiero umano, in tutte le sue forme, agisce sulla realtà modificandola.

Oggi non abbiamo le speranze e le certezze rivoluzionarie di Gramsci, che pure elaborava le sue teorie tra le mura di un carcere dove fu rinchiuso dal fascismo, ma non possiamo rinunciare all’idea di una politica che cambia la società, che non sia strumento nelle mani di pochi. Ed una politica siffatta deve fare i conti con il pensiero umano, con ciò che esso ha prodotto nella civiltà in cui viviamo.

L’altra domanda da porsi è quindi quali sono le fonti, i riferimenti del pensiero, del sapere filosofico di cui il PD deve dotarsi? Certamente, non si può pensare oggi che un partito abbia un’unica dottrina, un dogma cui riferirsi. Ciascun singolo militante, dirigente, avrà le sue preferenze filosofiche. E’ importante che in un partito tuttavia sia presente un dibattito teorico rigoroso, che faccia i conti con i principali filoni filosofici esistenti, e che si cerchi continuamente una sintesi tra i diversi approcci, secondo un metodo scientifico. Ciò che la filosofia e la scienza moderne più avanzate ci insegnano, innanzi tutto, è che le conclusioni cui la conoscenza ci conduce non sono mai definitive, devono continuamente essere sottoposte a critica e verifica. Nondimeno, il pensiero di un partito, che va considerato come un vero e proprio organismo pensante collettivo, dovrà avere una sua coerenza interiore, una sua sistematicità, dovrà cioè essere in grado di arrivare attraverso il dibattito, sulle questioni specifiche e su quelle più generali, a conclusioni generalmente condivise, per quanto non definitive, elaborate attraverso il metodo dell’analisi e della verifica. I riferimenti quindi saranno plurali, ma la scelta dei pensatori e dei filoni cui rivolgersi non può essere casuale. Anche la scelta in questo caso ha un significato politico. Un partito che voglia essere democratico, progressista, ambientalista, sceglierà come riferimenti intellettuali e correnti di pensiero, cui attingere, che abbiano lo stesso orizzonte di valori, approcciandosi ad essi in modo critico. Senza rinunciare allo studio e alla critica anche dei pensatori e degli intellettuali “avversari”, che spesso è altrettanto utile della conoscenza delle fonti “amiche”.

La scelta non dovrà essere casuale soprattutto per un’altra ragione.

Lo sforzo dei dirigenti e degli intellettuali, che collaborano con il partito sarà quello di ricercare ciò che a livello non solo nazionale ma principalmente a livello mondiale, il pensiero offre di più avanzato. Come lo si stabilisce? Il criterio dovrà essere scientifico anche in questo caso: con rigore si dovrà rintracciare quali siano gli approcci culturali e filosofici che hanno risolto o possono contribuire a risolvere i problemi concreti più attuali, che offrono le soluzioni più utili e più funzionali secondo gli obiettivi che il partito si propone. In campo scientifico, è molto facile stabilire che la fisica fondata sulla relatività e sulla quantistica è più avanzata di quella newtoniana. In campo politico, è più difficile, ed il parametro, il criterio di riferimento non può che essere dato dagli scopi che il partito si propone (un partito che vuole combattere il surriscaldamento del clima, ritenendo che ciò sia prioritario, certo non si rivolgerà a studiosi che negano l’esistenza del problema; un partito che è per l’integrazione delle etnie e delle religioni diverse all’interno dello stesso Stato prediligerà filosofi e sociologi che sostengono la società multietnica e ne dimostrino la necessità e l’opportunità, ecc.). Del resto, nella stessa scienza, che non è anch’essa scevra del tutto da condizionamenti ideologici, da orientamenti etici e così via, le teorie elaborate dai diversi scienziati sono sottoposte nelle riviste più autorevoli e nei convegni ad esame, confutazione, confronto. Non di rado, teorie stroncate dalla maggioranza degli scienziati dopo qualche anno o persino decennio si sono rivelate invece più veritiere ed efficaci. Lo stesso metodo dovrebbero darsi i partiti, dotandosi degli strumenti idonei (riviste, fondazioni, ecc.), applicandolo con rigore e serietà e investendo risorse nella ricerca e nella formazione.
C’è da dire che quasi tutti i maggiori partiti dell’Occidente si dotano di tali strumenti ed hanno importanti fondazioni di riferimento, o direttamente collegate al partito come avviene in Germania o di area come avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti. Anche se quasi sempre la loro elaborazione rimane patrimonio di pochi intellettuali, spesso poco ascoltati. Nel PD esiste una pluralità di Fondazioni, che non operano tuttavia secondo un metodo organico e spesso sono strumenti al servizio di correnti personalistiche.

Rigore intellettuale, ricerca, metodo scientifico, dibattito libero costituiscono le condizioni di un approccio che consenta ad un partito di dotarsi di un pensiero coerente, di non far scadere il pluralismo in eclettismo vuoto e inconcludente.

Fatta questa premessa, e cioè che l’elaborazione di una filosofia, di una specifica concezione del mondo, non può esimersi da un approccio sistematico e coerente, diventa evidente che la scelta dei riferimenti culturali del pensiero democratico non può che essere conseguenza di un’attenta individuazione, come vero e proprio atto propedeutico, delle questioni principali e generali che la politica deve affrontare nell’epoca attuale. Provo ad indicarne alcune:

- Il rapporto tra scienza e etica che oggi è la questione delle questioni che l’umanità ha di fronte. E collegato a ciò, il rapporto tra scienza, politica e fedi religiose con il risorgere dei fondamentalismi e degli integralismi.

- La crisi economica mondiale, che è conseguenza della separazione tra economia finanziaria e economia reale, la sempre maggiore divaricazione tra redditi da capitale e redditi da lavoro.

- Il surriscaldamento del clima e la questione ambientale che mettono a repentaglio la sopravvivenza stessa della specie umana sulla terra.

Tuttavia, al fondo di tutto questo c’è lo sviluppo dell’economia globale, questa nuova gigantesca fase di mondializzazione del mercato che è seguita alla rivoluzione neoliberista a cavallo tra gli anni settanta e ottanta. Il crollo del blocco socialista e l’affermazione del modello occidentale come unico modello dominante, e poi il grande cambiamento tecnologico derivante dall’informatica, hanno costituito un ulteriore fattore propulsivo, che ha potentemente accelerato la globalizzazione dell’economia. I grandi problemi che prima citavo in fondo non sono che effetti di questa trasformazione. L’economia, la scienza e la tecnica sono diventate grandi potenze globali, in conseguenza della vittoria e della diffusione su base mondale, senza più alcun ostacolo, dell’economa di mercato capitalistica, mentre la politica, la democrazia, il lavoro, in poche parole le persone continuano a vivere e ad agire su base locale e nazionale, fatta eccezione per una ristretta èlite che ha i mezzi economici e cognitivi per assurgere al rango di ceto dominante globale: la classe dei nomadi, come l’ha definita Attali. Questa classe detiene le leve del potere finanziario, mediatico, culturale, possiede ingenti ricchezze che spesso sfuggono alle tassazioni nazionali, perché collocate sui mercati azionari o persino nei cosiddetti paradisi fiscali. E il suo potere è quindi un potere globale che sta sopra i singoli Stati nazionali.
Da questo fenomeno deriva la scissione tra l’economia finanziaria, che è alimentata dai capitali di questa classe dominante nomade, e l’economia reale, costituita dalle imprese e dai lavoratori stanziali, su cui si scaricano i costi delle ripetute crisi economiche alimentate dalle bolle speculative finanziarie.
Dal dominio della scienza e della tecnica come grandi forze globali, che condizionano la vita delle persone spesso senza la capacità di dare senso e significato ad essa, deriva la reazione fondamentalista delle grandi religioni, non solo di quella islamica. Così come sono i fenomeni migratori di massa, effetto dell’economia globale e delle gravi disparità che attraversano il mondo, a determinare nei paesi occidentali rigurgiti di razzismo, xenofobia e rifiuto delle diversità culturali.
Ed infine la questione climatica è evidentemente la conseguenza di un modello economico, tecnologico ed energetico che, una volta diffusosi in tutto il pianeta, diventa insostenibile per il suo impatto sulla biosfera e sul clima.

E’ quindi sulla capacità di leggere la società globale e rispondere alle trasformazioni che essa determina che si misura la validità di una nuova concezione del mondo, e su cui è necessario giudicare ciò che di vivo e di morto c’è nel pensiero moderno.
Il Partito Democratico dovrà chiedersi se esiste una filosofia democratica attuale, che si sia misurata con tali questioni. Tale ricerca non potrà che rivolgersi innanzi tutto verso il pensiero liberale, che dopo la sconfitta storica dei sistemi politici di ispirazione socialista risulta essere la cultura dominante nel mondo attuale. Non ovviamente a quel filone del pensiero liberale, che ha concepito l’affermazione del neoliberismo e la sconfitta del socialismo reale come Fine della Storia, e che ha di conseguenza considerato il libero mercato come unico modello storicamente possibile. Tale idea, che è stata denominata Pensiero Unico, non fa i conti e anzi si rifiuta di farli con le contraddizioni della società globale, ed è oggi messa in discussione dall’evidenza della crisi non solo economica ma di egemonia del modello occidentale. Esiste tuttavia da tempo un filone che potremmo definire democratico - liberale e neoilluminista, che si interroga su come conciliare capitalismo e democrazia, liberalismo e giustizia sociale. Questo filone oggi si rende conto che la grande questione da porsi è come sia possibile globalizzare la democrazia, cioè fare in modo che alla globalizzazione del mercato corrisponda la creazione di una sovranità democratica post nazionale.

Ci sono alcuni riferimenti a mio avviso essenziali da questo punto di vista, anche se il numero di intellettuali che su questo tema si è interrogato è assai ampio, e c’è solo l’imbarazzo della scelta.

In primo luogo Jurgen Habermas, con la sua idea di un patriottismo costituzionale, che nasca dall’etica del discorso e dall’agire comunicativo, ha consentito al pensiero democratico liberale di assumere la sfida del multiculturalismo e della crisi delle democrazie nazionali. Nella concezione di Habermas tutte le posizioni filosofiche, etiche e religiose sono legittime e possono partecipare all’arena democratica, purché rinuncino ad imporre la propria verità e accettino alcune regole procedurali che consentono il libero confronto e la condivisione delle conclusioni cui si giunge attraverso il confronto delle idee. In tal modo, le visioni ideologiche e religiose differenti non solo non rinunciano a se stesse, ma diventano un valore positivo per la democrazia, perché contribuiscono ad innervare il dibattito pubblico e ad orientarlo secondo convincimenti etici profondi. Le deliberazioni assunte nell’arena democratica non saranno il risultato della semplice ricerca dell’interesse e della convenienza dei più, ma la sintesi più alta possibile delle diverse idee di ciò che è meglio per tutti. Questo rende anche possibile la nascita di una democrazia post-nazionale, in cui le differenze etniche, culturali e di nazionalità non diventino ostacolo alla formazione di un vero e proprio patriottismo di nuovo tipo, non più su basi nazionali, ma forgiato dalla possibilità per ognuno di riconoscersi in un organismo etico complesso, in cui le proprie verità siano accolte e integrate, e che assicuri a ciascun cittadino la possibilità di coltivare il proprio bene individuale così come quello collettivo.

Accanto ad Habermas, un riferimento essenziale è il filosofo ed economista indiano Amartya Sen, che è riconosciuto come il teorico dell’eguaglianza. Con la sua concezione dell’eguaglianza come insieme delle possibilità e delle capacità, che la società consente all’individuo di esercitare concretamente, non solo ha il merito di aver tolto questo valore fondante per tutte le ideologie democratiche e progressiste dal fumo del’astrazione e delle utopie impossibili, ma lo ha anche universalizzato, reso compatibile con le diversità culturali di un mondo sempre più integrato. Se l’uguaglianza è data dall’uguale possibilità di scelta di ciascun individuo è evidente che tra queste possibili scelte c’è anche quella di poter vivere la propria identità, senza sopraffare il prossimo.

Un altro intellettuale che in questi anni ha aiutato me e molti altri a comprendere i fenomeni culturali e politici connessi alla globalizzazione è il sociologo tedesco Ulrich Beck, punto di riferimento in particolare degli ambientalisti e delle correnti più innovative del pensiero progressista. Secondo Beck, la società contemporanea è una società del rischio globale: i grandi pericoli che il mondo deve affrontare, dal surriscaldamento del clima al terrorismo internazionale, mettono in crisi le certezze tradizionali. Nessuno cittadino è al sicuro nei recinti degli Stati nazione, che non sono più in grado da soli di fronteggiare tali sfide. Solo un nuovo cosmopolitismo, ossia la costruzione di una cittadinanza globale responsabile, ed il rovesciamento della classica impostazione del realismo politico, attraverso l’assunzione del principio che non esistono più tante politiche estere dei singoli Stati ma una sola politica interna mondiale, possono metterci nelle condizioni di fare i conti con le incertezze e le insicurezze della società globale.

Finisco qui un elenco che altrimenti potrebbe essere infinito, ma questi esempi importanti stanno a dimostrare come la parte più vitale del pensiero liberale e democratico, cui il Partito Democratico deve fare riferimento, sia quella che ha dato risposte in termini positivi alle nuove sfide della globalizzazione, interrogandosi sulle condizioni per cui sia possibile universalizzare e globalizzare la democrazia.

Ma la ricerca di ciò che c’è di vitale nel pensiero democratico moderno non può fermarsi qui, e deve saper individuare anche i punti critici. Il punto critico fondamentale di queste visioni neo illuministe, se così mi si consente di chiamarle, sta nel fatto che non tengono conto che il modello democratico - liberale, lungi dall’essere qualcosa di sempiternamente valido e riconosciuto come tale, è in realtà un prodotto storicamente determinato della civiltà occidentale. Esistono civiltà nel mondo, visioni filosofiche e religiose, che non accolgono la verità di questo modello e non sono disponibili ad accettare nemmeno la condizione habermasiana di verità parziali, che concorrono a definire attraverso il libero confronto un’idea superiore di verità condivisa.
I neoilluministi all’Habermas hanno in poche parole il difetto di essere fin troppo cosmopoliti, e di presupporre un’unificazione del mondo che, seppure spinta in avanti dalla globalizzazione, rappresenta una prospettiva tutta da realizzare, che per ora deve fare i conti con divisioni storiche profonde, derivanti dalle rivalità nazionali, dalle disparità nelle condizioni di vita, dalle resistenze culturali che persistono nel mondo, pur profondamente trasformato e dominato dalla civiltà occidentale.

A questa visione neoilluminista e neokantiana dell’universalità dei valori di libertà e uguaglianza, dei diritti umani, fa da contraltare nel dibattito contemporaneo la filosofia cosiddetta comunitarista, che cerca invece di mettere in risalto il valore delle comunità, delle tradizioni condivise come argine al dominio della società globale, che genera spaesamento, perdita delle radici e quindi di ogni dimensione etica del vivere civile. E’ un approccio, che pur avendo seguaci persino nell’area progressista, in realtà finisce con il legittimare i leghismi vari, le pulsioni neonazionaliste e populiste.

Tra queste due visioni, credo sia possibile una terza via, in cui forse la cultura italiana che da decenni non esprime nulla di originale nel dibattito internazionale può dire la sua, se ritrova le sue radici profonde e le proietta nel nuovo mondo.
C’è da riscoprire e rielaborare, alla luce dei cambiamenti epocali del mondo attuale, la tradizione storicista italiana. Infatti, è dai tempi di Croce e Gramsci che l’Italia non esprime più pensatori in grado di influire sul pensiero europeo e mondiale. Benedetto Croce, il grande filosofo abruzzese, massimo esponente dell’idealismo italiano, è stato uno dei più influenti intellettuali nell’Europa della prima metà del secolo scorso. Poi è letteralmente scomparso dal dibattito culturale europeo nel secondo dopoguerra, mentre l’influenza di Antonio Gramsci e dei suoi Quaderni del carcere è progressivamente cresciuta nei decenni successivi, ed è oggi l’intellettuale italiano più conosciuto, studiato e dibattuto all’estero, anche se trascurato in patria, o almeno non studiato come meriterebbe per il suo peso nella cultura mondiale. Ma Gramsci senza Croce non è pensabile. Gramsci è null’altro che il continuatore della tradizione storicista italiana, che oltre al Croce ha i suoi antecedenti in Antonio Labriola, De Sanctis, Spaventa e si potrebbe risalire fino a G.B. Vico. Un continuatore che ovviamente ha però profondamente riformato e modernizzato il pensiero storicista, mantenendone intatto il nucleo di fondo: la natura umana non è altro che il suo sviluppo storico. Non esistono modelli economici, dottrine, filosofie, validi una volta per sempre. L’agire umano, che è un agire sociale, modifica i modi di pensare, le forme culturali, le stesse strutture economiche e sociali secondo le proprie esigenze, che mutano nel tempo e nello spazio, diventando progressivamente più complesse ed evolute. Questi mutamenti non avvengono casualmente, ma secondo leggi storiche che non sono però meccaniche, cioè frutto di automatismi; gli uomini non sono automi, ma è la loro volontà, non quella dei singoli, ma quella collettivamente organizzata, a determinare e forgiare mediante il proprio agire tali leggi storiche, secondo che le diverse volontà si combinino, si aggreghino o entrino tra loro in contrasto. Alcune di queste leggi Gramsci le condensa nel concetto di egemonia, ossia nella constatazione che sono sì le classi dominanti sul piano economico, come aveva osservato Marx, a condizionare l’organizzazione delle società umane, ma che questo dominio si stabilizza e si regge fino a quando le classi dominanti riescono ad essere egemoni, cioè a costruire un sistema di consenso nella società, e quindi a dominare non solo la struttura produttiva ma anche il modo di pensare, non solo gli interessi materiali ma anche le coscienze delle persone. E questo attraverso un complesso apparato di potere, in cui un ruolo decisivo è svolto dai ceti intellettuali.

Ritornare a Gramsci, quindi. Il Gramsci che tuttavia serve non è il santino cui è stato ridotto dalla sinistra italiana, che spesso si è cullata nel proprio provincialismo presupponendo una qualche sua superiorità culturale, solo perché figlia di un pensiero gramsciano, che in realtà si è smesso di studiare e di aggiornare alla luce dei cambiamenti epocali degli ultimi decenni. Come se rifarsi a Gramsci bastasse per capire il mondo di oggi, peraltro profondamente diverso da quello in cui egli viveva. Ciò che dobbiamo riprendere da lui invece è il metodo, l’approccio integralmente storicista e quindi antidogmatico, la curiosità verso il mondo: il Gramsci che si interessa della storia degli intellettuali del Giappone, dell’America Latina, del mondo arabo. Il Gramsci che intuisce la forza modernizzatrice dell’americanismo e del fordismo.
Insomma, è inutile tornare a Gramsci se non si accompagna il recupero del suo pensiero con il confronto delle correnti di idee del mondo attuale, se anche in questo caso non facciamo un’opera di selezione di ciò che è ancora vivo rispetto a ciò che non è più riutilizzabile.

Ma non è questa la sede per una ricostruzione circostanziata del pensiero gramsciano. Ciò che qui interessa è che la sua visione storicista ci aiuta a comprendere meglio cos’è la globalizzazione e la natura della sua crisi attuale, che non è altro che l’ultima manifestazione di ciò che il pensatore sardo aveva individuato come la principale contraddizione del capitalismo contemporaneo: il cosmopolitismo dell’economia ed il nazionalismo della politica. La crisi della globalizzazione non è altro che la risultante dell’apogeo prima e del declino poi del capitalismo occidentale sul piano globale, della sua incapacità di governare le trasformazioni cui ha dato luogo, della sua crescente impossibilità di soddisfare le necessità dei nuovi protagonisti che esso stesso ha suscitato, rendendo partecipi del benessere economico milioni di essere umani che per secoli e secoli ne erano rimasti fuori. Il suo dominio mostra il fiato corto, perché non riesce più a generare un consenso prevalente attorno a sé, non riesce ad esercitare ciò che oggi gli americani chiamano il soft power, che non è come qualche intellettuale neo con semplicione vuole fare credere la sostituzione della forza delle armi con l’influenza dei McDonald’s e della pop music. Il soft power, che è una categoria che i politologi americani hanno coniato di recente, mutuandola in parte dall’elaborazione di Gramsci, ormai più studiato e conosciuto in America che in Italia, si ha quando alla pura forza coercitiva si sostituisce l’adesione spontanea e cosciente ad un ordine superiore, in grado di soddisfare l’interesse e le esigenze non solo dei gruppi sociali o delle nazioni dominanti, in questo caso occidentali, ma della maggioranza se non della totalità dei gruppi sottoposti o delle altre nazioni. Questo spiega perché oggi ci sia una crisi di consenso del modello occidentale, che non riesce a soddisfare l’esigenza di sviluppo della stragrande maggioranza delle popolazioni.

La visione storicista, che ci viene da pensatori come De Sanctis, Croce, Gramsci, ma anche da importanti filosofi contemporanei come Rorty, ultimo esponente di punta del pragmatismo americano, ci consente soprattutto di capire come siano prive di senso sia la pretesa di imporre al resto del mondo i modelli culturali, politici e sociali delle democrazie occidentali, e sia la visione secondo cui sarebbe vano sperare in un’evoluzione in senso democratico di paesi appartenenti ad altre civiltà. Nessuna civiltà storicamente determinata è immodificabile, nessuno può escludere che i popoli islamici o gli stessi cinesi, che non hanno mai conosciuto sistemi democratici di governo nella loro storia plurimillenaria, possano sviluppare forme proprie di democrazia, così come hanno fatto i popoli occidentali, ed è anzi ragionevole pensare che quanto più progressivamente queste civiltà si integreranno nella società globale tanto più questa evoluzione sarà necessaria. Ciò che sta accadendo in Iran, e persino le tensioni etniche e sociali che ci sono in Cina, ne sono una dimostrazione: i popoli di cultura islamica, così come i popoli asiatici, che vivono sotto regimi autoritari e che hanno la possibilità di accedere soprattutto tramite internet alle stesse informazioni di qualsiasi cittadino occidentale, e possono confrontare le loro condizioni di vita con quelle di cittadini di altri paesi democratici, sempre più rifiutano, soprattutto donne e giovani, di continuare a subire condizioni di minorità e privazioni di libertà essenziali altrove consentite (esprimersi, istruirsi, dissentire, decidere, ecc.), e quando possono si ribellano. Seguiranno la loro strada, imporre loro la nostra è sbagliato e non produttivo, anche se senza dubbio la globalizzazione e l’influenza della civiltà occidentale potranno aiutarli. A patto però che questa sappia sostituire, come ebbe a dire Bill Clinton nel suo discorso all’ultima Convention democratica, al potere della forza il potere dell’esempio.

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