sabato 5 dicembre 2009

BREVE SAGGIO INTRODUTTIVO. SECONDA PARTE

L’IDENTITA’

Una delle ragioni per cui il PD non è riuscito ad essere una forza riformista credibile come alternativa, collocandosi stabilmente attorno al 35-40% dei consensi, si ritiene sia la sua mancanza di identità, l’assenza di un profilo riconoscibile. E’ una delle questioni più dibattute all’interno del partito e anche sugli organi di informazione, senza che si riescano mai a chiarire i termini del problema discusso.

Nessuno finora si è, infatti, chiesto in cosa consista l’identità di un partito. L’unica certezza in proposito che si può ricavare dalla discussione è che l’identità di un partito non è l’elenco delle sue proposte programmatiche…
Se così fosse, il PD sarebbe dotato di identità più di qualunque altro partito italiano, se non europeo, data la mole di documenti programmatici elaborati. Evidentemente, l’identità è qualcosa di più, è l’ispirazione di fondo che deve sottendere un programma, ciò che lo rende leggibile e riconoscibile.
Sembrerebbe allora che essa debba consistere nella possibilità di ricondurre le idee di un partito ad una determinata tradizione politica. Oppure di attribuirgli una delle collocazioni convenzionali della topografia politica: sinistra, destra, centrosinistra, centrodestra.
Queste due concezioni sono entrambe superficiali e sbagliate.
L’identità di un partito non può essere definita dalla sua tradizione, né tanto meno dalle definizioni convenzionali di destra e sinistra, che, tra l’altro, nel corso della storia, dalla Rivoluzione francese in poi, hanno mutato significato radicalmente. La storia è piena di partiti che nascono e muoiono, che si scindono e si trasformano…
Se così fosse, i partiti nuovi sarebbero sempre privi di identità per definizione. Forza Italia e poi il PDL, che di Forza Italia è in gran parte l’emanazione, sarebbero in conseguenza partiti assolutamente non identitari: cosa c’è di meno riconducile alle tradizioni politiche e democratiche del berlusconismo? La conseguenza finale di questo ragionamento sarebbe considerare l’assenza di identità un vantaggio ed un punto di forza, e non di debolezza. Potremmo anche solo per un attimo ammettere questa conclusione, e ricavarne che alla fin fine la mancanza di una chiara identità non dovrebbe essere sentita dai democratici italiani come un problema. Ma…
Subito dopo dovremmo però allargare lo sguardo e chiederci: e la Lega? Tutto si può dire tranne che la Lega non sia un movimento fortemente identitario, eppure non meno privo di riferimenti alle tradizioni politiche storiche.
La verità è che l’identità di un partito si costruisce non nel passato, ma nel presente, ed ha consistenza se si proietta nel futuro. Può essere costruita attraverso la rielaborazione ed il continuo adeguamento al presente di una tradizione storica, che però viene meno quando non è più capace di adeguarsi nell’attualità. E questo spiega la morte di partiti con grandi tradizioni alle spalle, come è avvenuto in Italia per i partiti della Prima Repubblica. Oppure, può essere costruita ex novo, come è il caso del partito berlusconiano, in cui l’identità è Berlusconi stesso, e della Lega, in cui l’identità è data dal mito in gran parte artificioso della Padania.
Dunque, non è la tradizione che fa l’identità di un partito ma è il suo essere espressione di una concezione del mondo, anzi più tale concezione è originale, innovativa ed autonoma più sarà forte l’identità del partito che la esprime.
L’esperienza di Forza Italia ed in parte della Lega sembrerebbe suggerire che la rielaborazione della tradizione e della storia, di cui pure nessun partito nuovo può fare a meno, può essere meno importante di quanto non si ritenga. In realtà questa rielaborazione è avvenuta, a causa del disfacimento della Prima Repubblica, in termini quasi esclusivamente distruttivi del passato. Non a caso la Costituzione è stata considerata da queste forze, fin dall’inizio, un retaggio di cui liberarsi. Perché però tale nuova concezione non appartenga ad un’èlite ristretta, ma abbia una larga base popolare di condivisione, e si abbia quindi un vero e proprio partito, non deve essere astratta, ma corrispondere ad un’esigenza reale della società, ad interessi specifici di settori più o meno larghi della popolazione, e tradursi in convinzioni, comportamenti di etica pubblica diffusi, radicamento territoriale. Ogni partito sarà composto da un’èlite intellettuale (e anche la Lega e il partito berlusconiano ce l’hanno), che ha il compito di elaborare la filosofia, la visione alta della politica, in cui esso si riconosce, e da gruppi più larghi di militanti, simpatizzanti, fino al semplice elettore, che aderiscono al partito sulla base di passioni e di idee meno elaborate e più immediate. Più l’esigenza di cui la visione del partito si fa interprete è reale e duratura, più l’identità del partito ed il suo radicamento saranno permanenti e non transitori. Senza escludere che possano formarsi, come è accaduto, partiti che siano espressione di esigenze storiche parziali e di breve durata, e che pertanto nascono e muoiono nel breve periodo, assumendo spesso le sembianze di partiti non organizzati e non “di massa”, e quindi si hanno i partiti-movimento o legati al percorso politico di singole personalità.

Oggi non possiamo sapere con certezza se la Lega si rivelerà un partito di durata effimera, anche se la sua storia è già quasi trentennale, e se lo stesso sarà per il PDL, dopo che si sarà conclusa la parabola politica del suo leader, sta di fatto che allo stato si tratta di partiti con scarso retaggio ma che hanno un’identità forte e riconoscibile, in quanto la concezione del mondo che esprimono corrisponde ad esigenze profonde della società italiana, per quanto poco edificanti.

Questo ragionamento vale per i nuovi partiti, vale anche per i partiti storici: per quanto sia antica la loro origine, se non si dimostrano adeguati alle necessità storiche attuali, se viene meno la loro funzione, la loro utilità generale per il Paese, decadono e muoiono.

L’identità politica di un partito, in poche parole, non è altro che la sua capacità egemonica, ossia la sua capacità di fare presa sulla società, di guidarla, attraverso l’insieme di valori etici e di interessi specifici che è in grado di rappresentare. I partiti non sono altro che nomenclatura della società civile, come scriveva Gramsci, nella combinazione di forza e consenso che costituisce l’autorità dello Stato sulla società, rappresentano quando funzionano e non si trasformano in organismi chiusi il momento del consenso che si organizza, che è poi l’aspetto sempre più decisivo nelle società democratiche complesse.

Se questa è la definizione di identità, ne consegue che non esistono partiti privi di identità, e che non c’è identità senza ideologia di riferimento. Questa ideologia può essere più o meno aperta, più o meno tollerante, più o meno “liberale” (anche se il liberalismo in senso stretto è un’ideologia storicamente specifica), anche se nessuna ideologia può rinunciare ad alcuni suoi dogmi e certezze, che il militante semplice accoglie come verità date. Ciò che distingue le ideologie “liberali” da quelle totalitarie è che esse accettano alcuni limiti e regole comuni; è come nel calcio quando le diverse filosofie di gioco delle squadre tra loro in competizione per confrontarsi devono accettare di stare dentro un campo da gioco delimitato dalle linee bianche e dentro una cornice di regole riconosciute, non solo formali ma anche “etiche” (il rispetto dell’avversario, il saper perdere, ecc. che formano il cosiddetto flair play). Le ideologie “liberali” accettano in poche parole una base comune di condivisione, che non può che essere data nelle moderne democrazie da ciò che Habermas chiama il patriottismo costituzionale (un insieme di valori e di procedure, che garantiscono che la competizione tra ideologie antagoniste avvenga su basi razionali, dialogiche, ossia sul terreno del consenso e non su quello della forza e dell’imposizione delle proprie idee su chi la pensa diversamente). E’ ciò che il senso comune traduce nell’espressione: “Siamo in democrazia, ognuna la pensa come vuole”.
Che le ideologie in democrazia debbano accogliere questo principio di autolimitazione non fa sì che smettano di essere tali, ma vuol dire semplicemente che per fortuna un’ideologia specifica che si chiama liberalismo ha vinto la sua battaglia storica per l’egemonia, plasmando l’intera civiltà, e almeno in Occidente tutte le moderne costituzioni si ispirano ad i suoi dogmi (separazione dei poteri, libertà di opinione, ecc.), che forniscono il quadro di regole comuni accettato anche dalle altre ideologie. Si può dire per questa ragione che nelle moderne liberaldemocrazie, le ideologie politiche sono tutte e sempre “riformiste”, ossia tendono a modificare il modello politico ed economico esistente, e non possono mai essere rivoluzionarie, perché sarebbero incompatibili con la natura costituzionale del sistema.

L’ideologia, a mano che si voglia recepire di essa solo il concetto deteriore, non è altro che la concezione del mondo elaborata dall’èlite che dirige il partito così come viene percepita, sentita e fatta propria dal senso comune, dall’opinione diffusa dei cittadini che la condividono. Se non ci fosse la componente ideologica di un partito, le sue idee resterebbero astratte, patrimonio di pochi. Non ci sarebbe per usare un termine del marketing la fidelizzazione, la possibilità di trasformare la filosofia di un partito in convincimento etico, tale da impegnare ciò che di più prezioso il cittadino dispone come tale, il suo voto, il suo investimento in fiducia; non ci sarebbe ossia la capacità di trasformare un progetto politico in una fede a volte quasi religiosa (per cui persino il mito fasullo della Padania diventa un obiettivo reale su cui si mobilitano le energie ed il consenso di milioni di persone, per non parlare di ciò che in passato furono la fede comunista o socialista, ecc.). Ed è per questo che un partito non vive senza ideologia, senza miti, senza simboli di riferimento, che possono essere rappresentati, a seconda del grado di maturità e di complessità del movimento che lo sostiene, da una personalità storica, da un insieme di princìpi, da un modello costituzionale di riferimento (repubblica, monarchia, ecc.), da una classe sociale, da un’utopia, e così via.

Del resto, basta guardarsi attorno per vedere che nel mondo non esiste un solo partito importante senza ideologia di riferimento. Lasciamo perdere l’Europa, dove le due componenti politiche essenziali, per quanto indebolite, sono tuttora i socialisti e i democristiani, cui si aggiungono i verdi, i neocomunisti, i nazionalisti, ecc., tutte forze la cui impronta ideologica è evidente. Guardiamo le principali democrazie del mondo. In India governa un partito, il Congresso Indiano, in cui l’impronta ghandiana è talmente forte, che i suoi leader debbono quasi necessariamente portare il nome del fondatore ed essere discendenti della sua famiglia; in Brasile il confronto è tra il Partito dei Lavoratori di Lula (che ha unificato trotzkisti, teologi della liberazione, sinistra radicale, anche se il Presidente brasiliano ha negli ultimi anni impresso una svolta in senso riformista) e l’opposizione socialdemocratica (anche se si tratta di una forza che di socialista ha solo il nome, mentre in realtà ha una forte ispirazione liberal-moderata). Nella stessa America, rispetto alla quale è luogo comune teorizzare la somiglianza tra i due grandi partiti, vediamo che nel corso degli ultimi anni i democratici si sono sempre più caratterizzati come il partito dei diritti civili, dello Stato sociale e del multilateralismo in politica estera (sulla scia del kennedysmo, che come si è visto di recente, con i funerali del senatore Ted Kennedy, costituisce il mito di riferimento in cui tutto il partito si riconosce con diverse sfumature, di cui Obama si propone come legittimo erede), ed i repubblicani come il partito della patria con la P maiuscola, del conservatorismo, del nazionalismo in politica estera, oscillante tra interventismo militare e isolazionismo.

Partiti senza ideologia non esistono. Parlare di partiti post-ideologici o post-identitari (oggi con la parola post i commentatori e spesso anche i politici risolvono ogni problema di definizione di ciò che non sanno definire) sta solo ad indicare la situazione di partiti la cui ideologia è in corso di trasformazione, come spesso è accaduto nella storia (i partiti americani ne sono la dimostrazione più palese: i democratici all’inizio del secolo scorso erano il partito dei proprietari terrieri medi e piccoli, nel sud erano i più accesi sostenitori della segregazione razziale, poi sono diventati il partito dei liberal, dagli anni sessanta in poi), ovvero di partiti la cui formazione ideologica non è ancora compiuta.
Il PD italiano in questo senso, ma solo in questo, è un partito necessariamente post-ideologico. Ma tale definizione, lungi dal rappresentare una condizione auspicabile, rappresenta solo il suo stato attuale di incompiutezza.

Una buona parte della discussione e della polemica congressuale sono state rivolte contro l'idea del partito post - identitario. Si parla di recupero delle radici delle tradizioni politiche di origine del PD: quella socialista (sic!) e quella cattolico-popolare. Ora in verità la tradizione post-comunista (non quella socialista, che nel PD non è mai entrata se non con l'eccezione di alcune personalità) è stata liquidata dai Ds e quella cattolico-popolare dalla Margherita, cioè dai partiti che hanno costituito e preceduto il PD, e non si capisce per quale ragione esso dovrebbe ricostituire tradizioni che sono state liquidate dai partiti che lo hanno fondato.

Forse vale la pena di non considerare la polemica congressuale spicciola, dove spesso le posizioni politiche sono definite, deformate, adattate secondo l’uso e le convenienze dell’ultimo momento.
In realtà, la teoria del partito contenitore post - identitario fu all'inizio sostenuta un po' da tutti. Del resto, l'unica modalità per tenere insieme la componente postcomunista e quella postdemocristiana, lasciando intatto il ruolo egemonico dei gruppi dirigenti di provenienza, era appunto realizzare un partito che fosse post - ideologico e post - identitario, teorizzare una convivenza conflittuale e competitiva all'interno dello stesso partito.

Trattasi, d'altra parte, di due tradizioni politiche che in quanto tali non sono conciliabili, e, infatti, non lo sono mai state. Potevano allearsi tatticamente, persino fare "compromessi storici" o dare vita a Governi di solidarietà nazionale, peraltro effimeri, ma non costituire un unico partito.
In un partito unificato certo possono convivere tradizioni, culture, persino ideologie diverse, anzi all’inizio è inevitabile che sia così. Ma alla lunga un partito non può reggere la coesistenza di visioni diverse della società. Possono coesistere opzioni strategiche diverse per raggiungere gli stessi obiettivi, ma non possono stare insieme fazioni che hanno scopi divaricanti.

Possono persino convivere interpretazioni diverse della stessa dottrina, la Chiesa è maestra in questo, fin quando non si arriva alla rottura su questioni che sono essenziali per la stabilità e l’unità stessa della comunità dei militanti (dei fedeli se parliamo di religioni), cioè fin quando le divergenze culturali tra i gruppi dirigenti non diventano tali da dare vita a conflitti insanabili tra gli appartenenti al partito. Ma quanto più le interpretazioni e le correnti di pensiero sono diverse, tanto più deve essere perciò stesso forte e coerente l’ideologia che le unifica.
L'unico modo quindi per poter far convivere in un unico partito tradizioni diverse, senza che la conflittualità regnasse sovrana, era dare vita ad una nuova sintesi. La sintesi, però, come insegna la dialettica hegeliana, non conserva mai ciò che la produce, altrimenti non è una sintesi, ma una semplice sommatoria. Così avviene in natura ove l’incontro di elementi diversi da sempre vita ad un terzo elemento distinto da primi due (l’acqua non è semplicemente l’unione di idrogeno e ossigeno, ma una nova sostanza con qualità sue proprie).
Il PD in questi primi due anni di vita non ha fatto altro invece che oscillare continuamente, e continua tuttora, tra queste due opzioni: il partito contenitore di identità plurali (ed è questo il partito post - identitario, che altro se no?) ed il partito fondato su una nuova appartenenza.La gestione leaderistica di Veltroni, ciò che i suoi critici gli attribuiscono e riconducono alla volontà di avere un partito senza identità, era in realtà proprio il contrario: l'unico modo possibile per dare una propria identità autonoma ad un partito, troppo condizionato dai gruppi dirigenti storici dei partiti di provenienza, era instaurare un rapporto diretto tra leadership e "popolo democratico" accompagnato con il tentativo di costruire un immaginario ed una simbologia propri del PD. Quando un partito che si è appena formato, come è inevitabile che sia in molti casi, non ha una visione condivisa della società, non ha gruppi dirigenti che siano in grado di rappresentare e condividere le nuove esigenze per cui la nuova formazione si è costituita, è normale che sia una figura carismatica a incarnare l’unità e la coesione necessarie. Basta pensare, per stare alla storia recente, al Partito socialista francese la cui unificazione, dalle ceneri della galassia della sinistra non comunista, non sarebbe mai avvenuta senza il ruolo unificante di Mitterand. E sempre più la storia recente ci dice che i partiti, usciti sconfitti in una o più tornate elettorali, riescono a rinserrare le fila e riconquistare consenso solo grazie al ruolo di leadership personali forti: è stato così per i laburisti con Blair, così per i democratici americani (che del resto, come i repubblicani, hanno istituzionalizzato la ricerca della leadership carismatica con le primarie) con Obama, così per i socialdemocratici con Schroeder, e così via.

Veltroni, sostenitore dell’idea del partito postideologico o “liquido” come è stato denominato (anche se ha sempre rifiutato tale definizione), quindi non ha fatto altro che tentare di dare al PD l’unica forma ideologica possibile, a fronte di un deficit di classe dirigente e di elaborazione culturale, attraverso il cosiddetto nuovismo e il ricorso ad un immaginario patriottico un po’ superficiale, sulla scia della riscoperta ciampiana del patriottismo italiano di marca neorisorgimentale.
Non bisogna stupirsi di ciò: soprattutto da quando si è perso ogni metodo di critica storica, in politica quasi sempre ciò che si fa è diverso se non contrario rispetto a ciò che si predica. Non esiste autocoscienza delle proprie azioni, di tutte le loro conseguenze e di tutte le implicazioni che ne derivano. Del resto cos'è stato su un piano più generale la teoria della fine delle ideologie, se non il modo per sostituire alle vecchie ideologie del novecento, una nuova ideologia, ciò che in Francia hanno battezzato il Pensiero Unico? Ma ciò corrispondeva ad una realtà storica, al fatto che effettivamente c'era una crisi delle ideologie del secolo scorso. Così per il PD: le vecchie ideologie di provenienza non erano e non sono più in grado di esprimere una strategia per il futuro, ma non c'era una nuova ideologia pronta, ed il condizionamento dei vecchi gruppi dirigenti era ed è ancora troppo forte. Il veltronismo, cioè il combinato di leaderismo mediatico e nuovo immaginario, era l'unico modo storicamente possibile in quel momento per dare un’identità condivisa al PD. Anzi, il vero problema di Veltroni è stato di non essere andato fino in fondo e di non aver rappresentato una leadership sufficientemente forte ed autonoma.
Non ha colto che attorno alla sua idea di PD andava costruita non una direzione collegiale, come gli veniva chiesto e come ha erroneamente fatto, anche se ora gli si rimprovera il contrario, ma un nuovo gruppo dirigente che condividesse questa idea e la sostenesse nel partito, in conflitto con i gruppi dirigenti storici. E così si è trovato in una situazione di paralisi, che si manifestava nell'afasia della leadership sulle questioni più spinose su cui misurava l'identità del partito: il rapporto Stato - Chiesa, il rapporto con i sindacati, la collocazione europea. In parte perché si commetteva l'errore di pensare che ci potesse essere libertà di coscienza sulle questioni che dividevano il partito, frutto della visione sbagliata del partito somma di identità plurali, in parte perché la mediazione estenuante tra gruppi dirigenti con idee divergenti impediva l'assunzione della scelta.Ma ora nella polemica congressuale e nell'impostazione della critica alla fase veltroniana si continua, a commettere esattamente lo stesso errore che si dice di voler evitare. Definire l'identità del PD sulla base delle appartenenze passate vuol dire riproporre l'idea che il partito possa essere la somma delle componenti storiche che lo hanno costituito. Questo errore di prospettiva ha conseguenze pratiche molto concrete e molto gravi. Vuol dire ribadire l'inamovibilità dei gruppi dirigenti storici, il che del resto viene detto esplicitamente e purtroppo ha il suo punto di forza nella fragilità e nella mancanza di autonomia dei nuovi gruppi dirigenti. E vuol dire che quale che sia la nuova leadership, nell'ipotesi in cui prevalesse questa impostazione, si troverà o nella situazione di non poter scegliere sulle questioni nodali che riguardano l'identità del partito oppure di sottoporre il partito a fibrillazioni tali, da creare il rischio effettivo della scissione.

Quanto ho finora esposto sta a indicare che la strada da percorrere per la costruzione dell’identità del PD è quella di azzerare completamente il suo passato, l’eredità storica dei partiti fondatori? Assolutamente no. Il problema del PD è elaborare una sua concezione della società, dell’Italia e del suo ruolo nel Mondo, che sia all’altezza delle sfide presenti e future. Ciò non può non avvenire innanzi tutto attraverso una rielaborazione della storia italiana, delle ragioni della crisi del Paese, del perché il suo processo di unificazione sia tuttora a rischio, a ben 150 anni di distanza dalla proclamazione dell’Unità. E la risposta principale che il Partito Nuovo deve dare è perché il riformismo nel nostro Paese sia sempre stato debole e minoritario, dato che esso si propone di diventare nelle condizioni storiche attuali la grande forza riformatrice nazionale e popolare che è sempre mancata; e quindi per poterlo essere deve in primo luogo individuare le cause di questa mancanza, per poterle rimuovere. Anche per questa ragione, è un errore di prospettiva pensare che la rielaborazione del passato, che il Partito democratico deve fare, abbia come finalità solo il recupero della componente postcomunista o socialista e della componente postdemocristiana, ma piuttosto il suo tentativo sarà quello di far confluire in una nuova sintesi tutti i tentativi di cambiamento riformista che hanno attraversato la storia nazionale, rielaborandoli criticamente, e quindi le tradizioni cui rivolgersi saranno il complesso delle ideologie progressiste e riformiste storiche del Paese, dal Risorgimento fino ai giorni nostri, da Cavour e Mazzini fino a Berlinguer e Moro.

Lo scopo di tale rielaborazione del passato non dovrà però essere retorico, ma di selezione critica di ciò che di buono va salvato e di ciò che di invece essendo non più attuale non dovrà essere recuperato. Anzi, principalmente, dato che gli aspetti vitali della storia si conservano da soli, in virtù della loro attualità, senza bisogno che nessuno ne declami la necessità, la ricerca storica che un gruppo dirigente politico dovrà fare sarà proprio indirizzata ad individuare i limiti e le insufficienze del passato, per non ripetere gli stessi errori e non riprodurre le stesse inadeguatezze. Uno storico che scrive sull’Impero Romano dovrà impiegare solo poche parole per spiegare che il diritto o altre invenzioni della civiltà romana come gli acquedotti o le reti stradali si sono tramandate fino a giorni nostri, a meno che non voglia scrivere un’agiografia piuttosto che un’opera storico-scientifica; molte più pagine dovrà dedicare alle cause del crollo dell’Impero, a spiegare ciò che di caduco e non storicamente duraturo c’era in quella civiltà.

Nella fattispecie, per quanto riguarda il Partito Democratico bisognerà chiedersi perché né il movimento operaio di sinistra né il movimento popolare democratico - cristiano sono riusciti in definitiva ad unificare il Paese e a modernizzarlo. E con riferimento alla storia più recente perché i governi di centrosinistra non abbiano portato a termine l’obiettivo di cambiare il Paese e di togliere alla destra la maggioranza dei consensi. Obiettivo, quest’ultimo, che non può essere considerato irrealizzabile. L’Italia non è un Paese per natura di centrodestra, come spesso viene ripetuto per pigrizia intellettuale e per comodità auto-assolutoria anche da dirigenti ed intellettuali di sinistra e di centrosinistra, ma ha avuto anche momenti in cui, come a cavallo degli anni Settanta, le forze progressiste erano potenzialmente maggioritarie (ma non hanno mai potuto costituire una maggioranza, a causa della Guerra Fredda e del veto esterno ed interno alla presenza del PCI nel governo,e per il rifiuto di quest’ultimo di ipotizzare governi di sinistra con il 50% + 1 di consensi). Non era un risultato scontato che la destra berlusconiana diventasse maggioritaria nel Paese dopo la fine della Prima Repubblica, e perché questo dato sia rimasto immutato per 15 anni, in maniera quasi ininterrotta, è un qualcosa di cui occorre rendere conto.

L’altro riferimento, forse ancora più essenziale dell’analisi critica della storia passata, per elaborare una nuova ed autonoma ideologia da parte del PD, è il Mondo, ciò che ci accade attorno. La capacità egemonica di un’ideologia si misura sulla funzione nazionale che è in grado di svolgere; ma l’interesse di un Paese è innanzi tutto quello dato dal ruolo che esso svolge nella politica internazionale, e quindi la prima domanda cui un partito deve saper rispondere è questa: quale ruolo internazionale immagina e propone per il Paese. Questa regola è sempre stata valida, ma oggi nella società globale e sempre più interdipendente, in cui viviamo, assume un nuovo significato. Le sfide della politica sono ormai globali, i grandi rischi che abbiamo di fronte e che mettono in gioco la stessa sopravvivenza del pianeta sono mondiali: dal surriscaldamento del clima al terrorismo, dalle crisi finanziarie ed economiche alla criminalità organizzata. Nessun partito nazionale può rinunciare a “pensare globalmente per agire localmente”, per usare uno slogan degli ecologisti, e sempre più i partiti si inseriscono in network sovranazionali, che recuperano e adattano il modello delle vecchie internazionali.

In breve, ciò di cui il Partito Democratico ha necessità è un nuovo pensiero, che non può essere l’astratta sintesi di culture consolidate, ma deve essere il frutto di una rielaborazione critica dell’intera storia nazionale, per un verso, e di un’analisi dei cambiamenti globali, per un altro.
Tale nuovo pensiero dovrà fare i conti con i problemi attuali del mondo e della società contemporanei, e quindi non potrà che essere inserito nel vivo del pensiero moderno contemporaneo, confrontandosi con le correnti di pensiero europee e mondiali, con le elaborazioni più avanzate che la scienza, la filosofia, la cultura ci offrono in Italia e nel Mondo. E questo confronto con il pensiero contemporaneo, finora del tutto assente nel dibattito dei democratici italiani, è infinitamente più utile, per non dire indispensabile, dello sforzo, spesso assai complicato, di rintracciare nelle tradizioni dei partiti fondatori ciò che c’è di valido e attuale, di fronte ad un mondo che negli ultimi 50 anni è cambiato a velocità senza precedenti nella storia dell’umanità.

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