sabato 5 dicembre 2009

BREVE SAGGIO. SESTA PARTE

LA QUESTIONE MORALE E LE CLASSI DIRIGENTI DEL PD

Si parla da tempo nel PD dell’esistenza di una questione morale, relativa alle sue classi dirigenti. Da ormai diverso tempo si sono succeduti scandali e indagini della magistratura che hanno coinvolto amministratori e dirigenti politici del Partito Democratico in diverse realtà: Abruzzo, Firenze, Napoli, la Puglia, la Calabria e infine il Lazio con le dimissioni di Marrazzo da Presidente della Giunta Regionale del Lazio.

La mia regione, l’Abruzzo, è stata tra le più colpite: la sua Giunta regionale, presieduta da una personalità di spicco e di rilievo nazionale come Ottaviano Del Turco, già segretario aggiunto nella CGIL di Lama, poi segretario del PSI nel dopo Craxi e Ministro delle Finanze nel Governo Amato, è stata decapitata per un giro di tangenti relative alla sanità privata, su cui il processo è ancora in via di definizione. Successivamente, è stata la volta del sindaco di Pescara nonché leader del PD abruzzese, Luciano D’Alfonso, anch’egli indagato dalla Procura di Pescara. Ho quindi vissuto in prima persona insieme con tanti dirigenti abruzzesi l’ondata di scandali che nella primavera scorsa ha travolto il PD a livello nazionale, e che ha avuto l’epicentro proprio nella nostra regione.

Non voglio entrare nel merito di procedimenti giudiziari, che almeno per quanto riguarda le vicende abruzzesi presentano tuttora molti lati oscuri. Si tratta di vicende, sia quelle relative alla mia regione sia quelle relative ad altre realtà del Paese, tra loro diverse e su cui bisogna tuttora fare chiarezza. Ciò nonostante, perché tanti episodi si sono succeduti nel corso dei mesi recenti mettendo a così dura prova la tenuta del partito? Non può essere il frutto di una concatenazione di eventi puramente casuale, né si può ovviamente credere nell’esistenza di un complotto che abbia puntato a colpire il PD, che coinvolga realtà e situazione così lontane e diverse tra di loro. Una risposta a questo interrogativo è necessario darla, ed esso si è sintetizzato nella domanda: esiste una questione morale nel PD?

In primo luogo, occorrerebbe fare ciò che invece si elude sistematicamente di fare: analizzare qual è il concetto di cui si discute. L’espressione questione morale fu coniata da Enrico Berlinguer, Segretario Generale del PCI, in un’intervista a Scalfari su La Repubblica del 1981. Da allora sono passati “soltanto” 28 anni ma è come se fosse un secolo! La mia impressione è che la politica e la società cui si riferiva il leader del comunismo italiano appartengano ad un altro mondo e che la categoria della questione morale sia anch’essa appartenente ad un’altra epoca. So che è invece luogo comune affermare che la questione morale è l’eredità berlingueriana più attuale, ma personalmente non condivido. Il Berlinguer del 1981 è un leader sconfitto, emarginato dal gioco politico, sulla difensiva dopo il fallimento della strategia del Compromesso Storico, alla ricerca di contenuti che conferiscano un minimo d sostanza alla proposta fumosa ed evanescente dell’Alternativa Democratica. Con ciò non voglio dire che l’enunciazione della Questione Morale fosse priva di un suo fondamento e non contenesse una verità profonda. Ciò che Berlinguer intuì, con la lungimiranza che gli era propria, e che s’intravvede chiaramente nel rileggere l’intervista al fondatore de La Repubblica, è la crisi del sistema dei partiti, il distacco sempre più profondo tra di essi e la società italiana, il loro ridursi a macchine di potere dedite all’occupazione sistematica delle istituzioni. La sua critica era ovviamente rivolta essenzialmente ai partiti di governo, a quel Pentapartito che allora doveva ancora configurarsi come tale, allora appena agli esordi di uno strapotere che sarebbe durato un decennio e che nessuno poteva immaginare allora sarebbe crollato come un castello di sabbia nel giro di undici anni; e questo dimostra la profondità della visione berlingueriana, per quanto drammaticamente priva di sbocchi strategici. Con la questione morale Berlinguer voleva, da un lato, segnare l’alterità del suo partito, che aveva il suo corollario nella cosiddetta “diversità comunista”, proponendolo come punto di riferimento imprescindibile di qualsiasi alternativa di governo, e dall’altro, metterlo al riparo da degenerazioni del sistema democratico che pure rischiavano di coinvolgerlo e che avrebbero poi portato a Tangentopoli. Non si può dire che non raggiunse in buona parte il suo obiettivo: il suo PCI, per quanto escluso dall’area di governo e sempre più isolato, riuscì ad affermarsi come “riserva morale” del Paese, nonostante singoli episodi di coinvolgimento nella corruzione dilagante, e su questa base comunque preservare il suo consenso e consolidarlo, finché nelle elezioni europee del giugno 1984 il PCI, grazie anche all’impatto emotivo della scomparsa appena avvenuta del suo capo, per la prima volta riuscì a scavalcare la DC e diventare il primo partito italiano, con oltre il 33% dei consensi. Tuttavia, dopo la sua morte seguirà un lento declino, che però non impedì ai comunisti italiani di essere l’unico partito storico tra i fondatori della Repubblica a sopravvivere alla tempesta di Mani Pulite, anche grazie alla svolta di Achille Occhetto che trasformò il PCI in PDS e fece confluire il partito nell’Internazionale Socialista.

C’è da dire inoltre che Berlinguer contornava la sua analisi sulla questione morale di tutta una serie di precisazioni volte ad evitare che essa fosse intesa in senso ideologico, moralistico, a darle un contenuto realistico e concreto, fondato sul tipo di rapporto tra società e politica che si andava profilando in Italia. Di fronte all’evidente degenerazione del sistema partitico italiano e al suo allontanarsi sempre più dalle esigenze di modernizzazione della società, del resto lo slogan della questione morale, proprio perché semplicistico, aveva una sua presa su settori non piccoli della società, anche se l’isolamento politico e la chiusura conservatrice di Berlinguer su altri versanti della sua politica, come sulle riforme istituzionali e della politica economica (vedi referendum sulla scala mobile), resero progressivamente il PCI incapace di raccogliere ed interpretare la domanda di cambiamento del Paese.

Tutte queste specificazioni realistiche dell’analisi berlingueriana peraltro si sono purtroppo perse nel tempo, e la questione morale si è tramandata negli anni secondo una declinazione assolutamente sbagliata e fuorviante. Ed era inevitabile che fosse così, dato che la sua stessa denominazione contiene un’aporia insuperabile, ossia quella di confondere due piani che non possono stare insieme: la politica e la morale. La separazione tra politica e morale, di cui il primo e principale teorico fu il nostro Machiavelli, è una delle premesse della laicizzazione dello Stato e della politica; senza di essa non sarebbe stato creato lo Stato di diritto. La politica può al massimo avere un rapporto, non però immediato, con l’etica, nel senso di trarre dall’etica condivisa, emergente dal dibattito pubblico, regole e norme che poi si traducano nell’assetto istituzionale e nella legislazione di uno Stato. Mai e poi mai in un regime democratico e liberale la politica può giudicare la moralità dei comportamenti, compito che invece compete ad altri attori sociali (la Chiesa, la scuola, la famiglia); per ciò che riguarda lo Stato, ad esso non interessa la moralità degli individui se non per gli eventuali reati da essi commessi, la cui persecuzione tuttavia spetta ad organi specifici, nella fattispecie quelli giudiziari, nei limiti imposti dalla legge. La Questione Morale di cui si discute oggi è dunque un residuo antistorico di una visione ideologica della politica, quale era quella che caratterizzava il PCI berlingueriano, peraltro frutto in particolare dell’elaborazione di un gruppo interno al comunismo italiano minoritario ma molto attivo culturalmente, quello dei rodaniani, ossia dei cattocomunisti, unici davvero titolati ad essere così definiti, in quella fase molto influenti sulla leadership berlingueriana. Questa visione, separata peraltro dal contesto storico e dagli elementi di analisi da cui era stata prodotta, non può che avere effetti disastrosi sul piano culturale e ideologico, poiché ha alla sua base la presunzione di una superiorità morale da parte di chi se ne appropria e se ne fa banditore, che non è accettabile in un sistema democratico.

Se poi questa concezione moralistica si mescola con il giustizialismo e l’idealizzazione della magistratura, che ha pervaso la sinistra italiana negli ultimi vent’anni, prima per il sostegno non ingiustificato all’opera svolta dalla magistratura nella lotta alla corruzione e alla mafia e poi, successivamente, per reazione alla conflittualità berlusconiana verso i giudici, il disastro culturale è bello e fatto. La sinistra si ritrova, orfana della diversità berlingueriana, a giudicare la società e se stessa con lenti del tutto deformate.
L’Italia degli anni novanta e del nuovo secolo non è l’Italia degli anni settanta e ottanta; allora la caratteristica dominante è lo strapotere dei partiti e dello Stato sulla società; oggi è la debolezza e la fragilità della politica di fronte agli spiriti animali di un capitalismo globale trionfante, di interessi corporativi e poteri economici che si appropriano della politica fino al caso limite berlusconiano dell’Azienda che si fa direttamente Partito.
Questa evoluzione che non è solo italiana, nel nostro Paese raggiunge livelli parossistici, dato il tradizionale sentimento antipolitico che domina la nostra cultura, o se si preferisce incultura democratica. Interpretare questo fenomeno con la lente della questione morale vuol dire non capire nulla e non coglierne l’essenza. Significa non cogliere innanzi tutto perché la magistratura, nel perseguire giustamente il malcostume della corruzione che è ampiamente diffuso purtroppo in Italia, oggi come venti anni fa finisca con il colpire prevalentemente i politici, e quasi mai i poteri economici e gli apparati burocratici che della corruzione sono partecipi protagonisti. Significa non comprendere nemmeno ciò che per l’appunto è accaduto venti anni fa, quanto le inchieste di Mani Pulite portarono al tracollo di quasi tutti i partiti che avevano contribuito a fondare e costruire la democrazia italiana.

Quei partiti, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, il Partito Repubblicano, ecc., furono delegittimati e spazzati via non da Tangentopoli, che come sistema esisteva da anni se non da decenni senza che ciò avesse minimamente incrinato il loro potere e senza che i giudici avessero avuto né il coraggio né la forza di scalfirlo, e quei pochi che ci provarono furono rapidamente messi nelle condizioni di non nuocere. Furono al contrario messi in crisi e colpiti a morte dal venire meno della loro funzione storica, non solo in conseguenza del crollo del Muro di Berlino, che è stato solo la spinta finale di un lungo processo di svuotamento della democrazia dei partiti che in realtà aveva cominciato a perdere ruolo e credibilità già dalla fine degli anni settanta. La crisi irreversibile del sistema partitico della Prima Repubblica fu in realtà determinata dal suo immobilismo, dalla mancanza di ricambio delle classi dirigenti e in definitiva dalla sua incapacità di corrispondere alle esigenze di modernizzazione della società italiana, rese sempre più impellenti dall’integrazione europea e dalla competizione economica globale. Una parte consistente di essa a cominciare dal mondo dell’impresa e dai ceti economici più dinamici, divenne così progressivamente consapevole della necessità di liberarsi da quel sistema che non garantiva più la coesione del Paese e la sua crescita. Il crollo del muro di Berlino e la fine dei vincoli della Guerra Fredda furono il contesto in cui ciò fu possibile che avvenisse.

E se oggi si torna a parlare di questione morale, e da più parti si è evocato il riaffiorare di un clima analogo a quello respirato nel periodo di Tangentopoli, è perché oggi come allora siamo di fronte ad una crisi di rappresentanza di una classe dirigente politica, che non stata capace in questi quasi vent’anni di Seconda Repubblica di mantenere fede alle promesse di modernizzazione del Paese: nessuna decisiva riforma economica e sociale è stata portata a compimento o quasi, i tentativi di modifica della Costituzione e dell’assetto istituzionale per rendere più efficiente ed efficace la nostra democrazia sono tutti miseramente falliti, la distanza tra Nord e Sud dell’Italia è tornata a crescere, in termini di infrastrutture materiali ed immateriali, di efficienza dei servizi, di livelli di reddito e così via. E ciò si aggiunge al fatto che la politica oggi è assai più debole di quanto non lo fosse venti anni fa, sempre più si riduce a mera tecnica di gestione del consenso e del potere. Dentro questo fallimento della politica italiana, c’è il fallimento non del Partito Democratico, ma di gran parte del ceto politico del centrosinistra che ha fondato il nuovo partito guidato oggi da Bersani. La politica ha perso in questi anni la sfida dell’innovazione del cambiamento, e si è smarrita, ha perso autonomia e ruolo. Da questo scaturisce la sua delegittimazione, ed anche quella dei gruppi dirigenti attuali del Partito Democratico. Per queste ragioni, oggi i suoi dirigenti sono spesso sotto accusa in particolare nel Mezzogiorno. E’ nelle realtà del Sud Italia, più che altrove, che il centrosinistra aveva progressivamente ricevuto un investimento di fiducia, a partire dalla stagione dei Sindaci eletti direttamente dai cittadini, per il cambiamento e la rinascita civile di quei territori. E alla lunga invece il centrosinistra, soprattutto nel governo delle Regioni, di fronte all’impossibilità di un reale cambiamento in assenza di una politica nazionale che lo favorisse, si è adagiato nella gestione dell’esistente. Dalla gestione dell’esistente al diffondersi di fenomeni di clientelismo, nepotismo, corruzione e in qualche caso connivenza con la criminalità organizzata, in realtà, il passo è molto più breve di quanto non si pensi. Così come è abbastanza facile che in regioni centrali come la Toscana, dove la sinistra governa da decenni in assenza di ricambio, e che sono quelle più in sofferenza di fronte ad un sistema-Paese che non si modernizza, possano anche in questo caso diffondersi fenomeni di degenerazione.

Avere interpretato il succedersi di indagini della magistratura verso amministratori e dirigenti del PD attraverso la categoria della questione morale, coma ha fatto tutto il gruppo dirigente postcomunista, da Veltroni a Bersani, oppure in termini di “singole mele marce” come invece le ha definite Franceschini, è stato da un lato sintomo di un grave ritardo culturale, dall’altro un comodo alibi per non affrontare la sostanza del problema: ossia, la delegittimazione e la crisi di rappresentanza della propria classe dirigente. Questo modo di impostare la crisi delle classi dirigenti è stato esiziale, perché peraltro ha avuto due effetti assai negativi: uno, sul medio periodo, di impedire per l’appunto al partito di vedere qual è la sostanza della questione, l’altro più immediato di generare sconcerto e disorientamento negli elettori, in specie di sinistra, abituati a rappresentare i propri dirigenti come superiori sul piano morale, e a pensare allo stesso tempo che i giudici siano infallibili e quindi non possano sbagliare. Agitare la questione morale da parte dei dirigenti del PD è quindi stata percepita da loro come una grave ammissione di colpa, non politica, il che sarebbe anche emendabile ma morale, il che è per loro imperdonabile.

Gli elettori di sinistra dovrebbero invece abituarsi all’idea laica che non esistono partiti e gruppi dirigenti “geneticamente” onesti e moralmente superiori; come accade in tutto il mondo, soprattutto quando si partecipa della gestione del potere politico governativo, possono esserci, in qualsiasi partito, fenomeni di corruzione, abusi, illegalità. Ciò che la politica deve garantire, e soprattutto le forze progressiste e democratiche, sono regole chiare ed efficaci di trasparenza, di autocontrollo, di sanzione ed allontanamento di chi sbaglia, di ricambio dei gruppi dirigenti. Il Partito Democratico, anziché ripetere formule come la questione morale che appartengono a visioni ideologiche del passato, dovrebbe piuttosto contribuire a porre in Italia la questione etica dell’autoregolamentazione della politica e della sua riforma, ma soprattutto della necessità di restituire alla politica autonomia e capacità decisionale. E del resto, sono questioni tra loro connesse: senza un codice etico di autoregolamentazione, che ad esempio vieti le candidature di chi è oggetto di procedimenti giudiziari per reati gravi o impedisca conflitti d’interesse, non solo per chi è proprietario di mezzi d’informazione, ma anche per tutte le categorie potenzialmente portatrici di interessi conflittuali con l’interesse pubblico, non ci sarà nessuna credibilità e autorevolezza della politica; senza autonomia della politica non c’è codice di condotta che tenga.

Non è di questo, tuttavia, che si è discusso nel Partito Democratico, dopo i casi dell’Abruzzo, di Firenze, di Napoli; ci si è invece auto - flagellati sulla questione morale per settimane, pagando così un caro prezzo sul piano elettorale a favore d Di Pietro, e si è rinviato invece l’avvio di un processo di ricambio dei gruppi dirigenti, che invece era e resta il problema impellente da affrontare.

Il rinnovamento dei gruppi dirigenti è il più complesso dei problemi che un partito possa affrontare; esso non s’improvvisa, è il frutto di processi dolorosi, dato che la tendenza più naturale ed innata per i gruppi dirigenti di un partito è l’autoconservazione. D’altra parte, nessun partito, tanto meno un partito che aspira al governo, si può permettere di improvvisare, la credibilità dei gruppi dirigenti è ciò che conferisce credibilità ed autorevolezza ad un partito. Il rinnovamento, storicamente, secondo le esperienze che si sono realizzate nel tempo nella lunga storia dei partiti politici, può avvenire essenzialmente in due modi: o per selezione guidata e graduale, come avveniva principalmente nel PCI, o attraverso i conflitto e la capacità di una nuova generazione di imporsi sulla vecchia, come è accaduto nella vicenda del PSI, basti pensare al famoso colpo di mano con cui Craxi e Signorile s’impadronirono della direzione del partito in occasione della riunione tenutasi al Midas, celebre hotel della capitale. Se volgiamo lo sguardo a ciò che è accaduto di recente nel mondo, nei partiti di area progressista, vediamo che il ricambio delle leadership è avvenuto prevalentemente attraverso la via conflittuale; in molti casi abbiamo avuto modalità “miste”, in cui un rinnovamento avviato attraverso il controllo e la selezione da parte dei gruppi dirigenti storici è stata improvvisamente accelerata dall’affermazione autonoma di una nuova leadership. E’ questo il caso di Tony Blair, che ha saputo affermarsi con il proprio carisma nel Labour Party, ma il cui avvento insieme con Gordon Brown alla guida del partito fu in qualche modo preparato dalla guida di un leader saggio e lungimirante come Neil Kinnock. Alla via conflittuale appartiene invece l’affermazione di Zapatero, che impose dal suo basso la sua leadership ad un gruppo dirgente storico del PSOE ormai logorato dalle sconfitte e da scandali giudiziari.

La difficoltà seria per il PD è che non esistono le condizioni, allo stato attuale, per rendere praticabile nessuna delle tre vie: né quella della cooptazione, se così vogliamo definirla, né quella conflittuale, né tantomeno quella mista. Nel PD, infatti, non esistono più gli strumenti e i canali di formazione del gruppo dirigente che c’erano nel PCI (basti pensare alla celeberrima scuola delle Frattocchie, che pure ho avuto il privilegio di frequentare nei suoi ultimi scampoli di esistenza) o persino nella DC (affidati per lo più all’associazionismo collaterale di ispirazione cattolica); allo stesso tempo, la nuova generazione di dirigenti, che pure non manca, formatasi per così dire spontaneamente attraverso l’esperienza delle organizzazioni giovanili, delle sezioni o dei circoli, dei comitati per l’Ulivo, delle amministrazioni locali, non ha la forza e la determinazione per imporsi. Lo si è visto nell’ultimo Congresso, quando la generazione di cui anch’io faccio parte non ha avuto la forza di esprimere una propria candidatura per la segreteria del partito.

Di fronte a questa situazione, e dopo tanto chiacchierare a vuoto di rinnovamento, era inevitabile che i militanti e gli elettori del PD si rivolgessero nella scelta del leader ad una figura rassicurante ed affidabile, quale non a torto è apparso Pierluigi Bersani. A lui spetterà il compito di avviare un processo di ricambio non più rinviabile, e farlo seriamente e non a chiacchiere come finora è accaduto, sfidando una nuova generazione ad assumere l’onere della responsabilità di dirigere effettivamente ai massimi livelli, compreso quello nazionale, il principale partito di opposizione.

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