sabato 5 dicembre 2009

BREVE SAGGIO. QUINTA PARTE

IL MONDO CAMBIA. AMERICA, EUROPA E ITALIA

Il mondo che cambia è un altro riferimento essenziale per l’identità democratica da disegnare. Il mondo non è mai cambiato ad una rapidità tale, come quella degli ultimi 50 anni. I cambiamenti avvenuti negli ultimi venti anni sono stati a loro volta più sconvolgenti di quanto potessimo immaginare. Il crollo del Muro di Berlino lasciava pensare molti di esserci avviati verso il regno incontrastato del libero mercato e del benessere, ed invece il capitalismo occidentale come abbiamo visto si è scoperto incapace di dominare il mondo sempre più unificato, che esso stesso ha contribuito a creare.

Cambiano i riferimenti politici con cui abbiamo interpretato la società mondiale. Venuto meno il bipolarismo USA – URSS, nel giro di dieci anni ci siano resi conto che anche l’unipolarismo dell’iperpotenza americana comincia ad avere crepe evidenti.

Infine, la crisi economica mondiale del 2009, la più grave dai tempi della Grande Depressione del 1929, ha abbattuto in un solo colpo ogni certezza sulle virtù magnifiche e progressive del capitalismo.

La vittoria di Barack Obama è stato senza dubbio l’evento simbolo di un mondo che è profondamente mutato. Per la prima volta gli americani hanno eletto un presidente afro-americano, che si è proposto promettendo “The Change”, un cambio radicale rispetto al passato: rispetto all’eredità fallimentare della presidenza Bush, ritenuta responsabile del disastro della guerra irakena e della crisi finanziaria che ha travolto l’economia americana e mondiale; ma anche rispetto alla politica americana tradizionale degli ultimi decenni.

Questo è avvenuto, a mio avviso, perché l’opinione pubblica americana ha preso coscienza per la prima volta che l’America da sola non può farcela. Non può farcela a dominare un mondo sempre più globalizzato, ad affrontare i grandi rischi del futuro, a sostenere un modello di sviluppo economico fondato sulla dissipazione delle risorse energetiche e sull’indebitamento. Tre sono stati gli eventi traumatici che hanno segnato questa evoluzione della coscienza nazionale degli americani: l’abbattimento delle Twin Towers dell’11 settembre 2001 da parte dei terroristi islamici di Al Qaeda, che ha reso evidente l’impotenza militare americana di fronte ad un terrorismo globale che si organizza a rete, fuori dai tradizionali conflitti tra stati; la distruzione di New Orleans da parte del tornado Katrina, che ha reso tragicamente manifesta la grande questione del surriscaldamento del pianeta, con le alterazioni climatiche conseguenti, e quindi la necessità di mutare il modello di sviluppo economico attuale; ed infine, per l’appunto, la crisi finanziaria ed economica, conseguenza del forte indebitamento delle famiglie della classe media americana.

Senza questi eventi shock, Obama non avrebbe mai vinto le elezioni presidenziali con quella larga partecipazione popolare che si è verificata, a suo favore.

Ci sono due possibili modi di interpretare la svolta obamiana. Il primo è quello di considerarla come una manifestazione della grande vitalità della democrazia americana e del suo successo, ed è il modo largamente prevalente. Il secondo, invece, nonostante l’indubbio grande carico di speranza che essa ha recato in America e nel mondo, è ritenerla un effetto della crisi e del declino della potenza americana. A mio avviso, c’è del vero in entrambe le interpretazioni.

Secondo un noto politologo, Charles Kupchan, uno dei teorici del multilateralismo del nuovo indirizzo della politica estera americana, siamo di fronte alla “Fine dell’Era Americana”. Il suo libro, così intitolato, è stato scritto prima dell’elezione di Obama, in piena crisi della Presidenza Bush, ma contiene sicuramente spunti di analisi rimasti validi, alla luce di quanto sta accadendo attualmente nella politica mondiale. Il declino irreversibile dell’egemonia americana deriverebbe da un insieme di fattori che Kupchan individua nel forte indebitamento estero dell’economia americana e quindi la sua dipendenza dai paesi creditori, nell’ascesa di nuove potenze mondiali come la Cina, l’India, il Brasile, la stessa Unione Europea, nella rivoluzione digitale che offre opportunità di crescita a realtà nazionali e continentali in passato emarginate dallo sviluppo, nella naturale inclinazione americana all’isolazionismo. Gli Stati Uniti sempre più scoprono di non avere le risorse economiche, militari, politiche per reggere la responsabilità di unica potenza mondiale, e quindi nel tradizionale pendolo della politica americana tra unilateralismo, internazionalismo e isolazionismo, variamente combinati fra loro, sarà la vocazione a ripiegare nei propri problemi interni la spinta destinata a prevalere. D’altra parte, il celebre studioso americano di politica internazionale, sulla base anche di precise analisi storiche, respinge l’idea che possa esistere una Fine della Storia, ossia un approdo definitivo delle vicende storiche dell’umanità segnata dal trionfo del capitalismo, del libero mercato e del modello americano, come teorizzata in passato da economisti e ideologi come Friedman e Fukuyama; l’iperpotenza americana ha di fronte a sé, come tutte le altre potenze del passato, un destino di apogeo e poi decadenza. Kupchan vede nell’attuale situazione mondiale tutti i segni di questa evoluzione, che conduce da un assetto unipolare ad uno multipolare, e confida con molto ottimismo in una rinnovata partnership tra Stati Uniti e Unione Europea, come asse fondamentale per governare un nuovo ordine mondiale fondato sul multilateralismo, dopo la fase dell’unilateralismo dei neo con, che ha ridotto ai minimi termini la credibilità internazionale americana. A patto che la politica estera della superpotenza sappia ritrovare un equilibrio tra internazionalismo e isolazionismo, chiamando proprio le nazioni europee, tra loro federate, ad assumersi sempre maggiori responsabilità, sia sul piano economico e sia sul piano militare.

L’analisi di Kupchan è molto convincente, e sicuramente è una delle fonti d’ispirazione del nuovo corso obamiano. Tuttavia, pecca di eccessiva fiducia nell’Unione Europea e forse di eccessiva sfiducia verso il proprio Paese. Quando il suo saggio è stato scritto e pubblicato, come già detto, Obama non aveva ancora vinto né le primarie dei Democrats né le elezioni presidenziali. Nessuno si poteva aspettare un cambiamento simile a quello che c’è stato. I fatti hanno dimostrato che l’America, aldilà delle aspettative, ha saputo guardare avanti e scommettere sul futuro, mentre l’Unione Europea arranca, è tuttora in una fase di stallo e non è assolutamente all’altezza delle sfide della nuova fase e dell’assunzione di responsabilità, che una nuova partnership euroamericana richiederebbe.
Oggi si discute molto delle promesse non realizzate da Obama, delle sue difficoltà e della delusione che c’è nei suoi confronti. E’ a mio avviso una discussione mal impostata. La radicalità dei cambiamenti che il nuovo presidente americano ha messo in campo è tale, da essere paragonabile ai mutamenti impressi all’economia e alla società americane da Roosevelt negli anni trenta, o per un altro verso da Reagan negli anni ottanta del secolo precedente; non è solo un cambio di politiche, ma per molti aspetti un cambio di sistema, un mutamento di paradigma, come quello che portò alla creazione del Welfare State con il New Deal rooseveltiano.

Perché si completi il passaggio al nuovo modo di pensare e agire, che il New Deal obamiano comporta, non basteranno né settimane, né mesi, ci vorranno anni. Smantellare il dominio delle assicurazioni private nel campo sanitario, riconvertire la produzione americana secondo gli obiettivi di abbattimento delle emissioni inquinanti che la comunità internazionale si è data, sono sfide assai ardue, che trovano resistenza nelle lobbies, nei poteri economici e mediatici, e all’interno dello stesso Partito Democratico. Così come non sarà facile costruire le condizioni di una politica internazionale multipolare e multilaterale, improntata alla pace e allo sviluppo della democrazia. Eppure, non si può dire che Obama non ci stia provando. Sulla sanità, sta sviluppando una battaglia feroce contro le lobbies, e dopo le prime incertezze il presidente americano ha scelto di andare avanti a viso aperto; se vincerà la sua battaglia, anche a costo di qualche rinuncia, questo sarà un cambiamento epocale per la politica americana, perché vorrà dire che gli interessi dei grandi gruppi economici possono essere messi da parte, a favore di quelli della cittadinanza.

La battaglia decisiva di Obama è però nella costruzione di un nuovo ordine mondiale, qui si gioca la sua credibilità e la sua autorevolezza. Il suo primo discorso all’ONU ha rappresentato una svolta che definire epocale non è eccessivo, che da solo, per il nuovo linguaggio in esso contenuto e per le speranze suscitate nel mondo, gli è valso il Premio Nobel per la pace, che qualcuno ha giudicato prematuro.

Gli obiettivi che Obama ha proposto alla comunità internazionale sono indubbiamente ambiziosi: superare la crisi economica, modificando le regole del sistema finanziario; costruire la pace, a partire dalla risoluzione della questione mediorientale (Israele - Palestina); porre le basi di uno sviluppo sostenibile, combattendo il surriscaldamento del clima attraverso la cooperazione; sconfiggere il terrorismo ed estendere la democrazia, non attraverso la forza, ma con il consenso. Quasi tutti i commentatori si sono chiesti come potrà imporre tali obiettivi con la collaborazione di capi di stato e di governo, che per lo più non parlano il suo stesso linguaggio. La risposta è semplice. Non è solo con la virtù della diplomazia, né tantomeno con l’uso della forza (il che negherebbe alla radice i princìpi della nuova politica estera americana), che il progetto di Obama può affermarsi. Il suo successo dipende da un mutamento delle leadership, e questo presuppone a sua volta il formarsi di una consapevolezza nell’opinione pubblica, e quindi una cittadinanza globale, capace di condizionare le leadership dei singoli paesi, imponendo il cambiamento. Forse la giuria che ha assegnato il Nobel ad Obama, per il significato simbolico di questo premio, ha voluto dimostrare di averlo capito molto meglio di tanti analisti della politica internazionale.

Questo cambiamento di leadership deve avvenire innanzi tutto nell’Unione Europea, per tornare al punto cruciale del mio ragionamento. Nella costruzione di un nuovo ordine mondiale, fondato sul multilateralismo, ma allo stesso tempo sull’espansione pacifica della democrazia e dei suoi valori, come mette bene in evidenza nel suo saggio Kupchan, l’asse America - Europa è decisivo, senza questo asse il nuovo ordine fallisce. Finora nella costruzione di questo asse, ciò che è mancata non è l’America, che con Obama ha saputo darsi un nuovo indirizzo che va nella direzione necessaria; finora è mancata l’Europa. Non ci si può lamentare del pericolo del G2, ossia del rischio di un nuovo ordine in cui a menare le danze sia la Cina, insieme con gli Stati Uniti d’America, fin quando l’Unione Europea non si deciderà a diventare attore globale, e non custode delle rivalità nazionali come è finora.

Mentre scrivo, si è finalmente giunti alla ratifica del Trattato di Lisbona. Si arriva a questo risultato però con troppo ritardo, dopo che era stato clamorosamente bocciato dal referendum francese un primo progetto di Costituzione europea, ben più ambizioso dell’attuale Trattato; e molta fatica si è fatta anche ad imporre la ratifica di quest’ultimo, inizialmente bloccato dai no degli irlandesi. La scelta da parte del Consiglio d’Europa di un Presidente dell’Unione stabile per due anni, che ne rappresenti la voce unica, costituirà sicuramente un passo avanti importante, così come la nomina di un Alto Rappresentante per la Politica Estera. Tuttavia, lo stesso tipo di discussione che si è fatta sull’individuazione della figura del Presidente e del cosiddetto Mr. PESC rivela la debolezza politica dell’Unione Europea. Ad un certo punto, sembrava essersi profilata la candidatura di Tony Blair a Presidente; sicuramente la sua elezione avrebbe assicurato all’Unione Europea una leadership carismatica, con più autorevolezza di quanto i poteri previsti dal Trattato non conferiscano effettivamente al Presidente. Ed è questa la ragione esatta per cui la candidatura di Blair sembra alla fine essere stata scartata dai capi di governo europei, oltre alle contraddizioni e agli errori della sua leadership politica, durante il suo governo della Gran Bretagna: l’ambiguo europeismo, la mancata adesione all’Euro, la guerra in Iraq. Per ragioni analoghe, è stata successivamente scartata la candidatura di Massimo D’Alema ad Alto Rappresentante per la Politica Estera, nonostante il suo profilo di europeista convinto, che senza dubbio ha avuto sulla politica internazionale posizioni assai distanti da quelle dell’ex premier inglese. Al suo posto, i capi di governo europei hanno preferito la baronessa Ashton, semi - sconosciuta Commissaria europeo al commercio, priva quasi del tutto di esperienza diplomatica, anche per compensare la Gran Bretagna della mancata nomina di Blair.

Ciò che però sembra del tutto sfuggire alla classe dirigente europea, compresa quella progressista e socialista, è la drammaticità della lentezza con cui la costruzione politica dell’Europa si presenta di fronte alle necessità della storia. La ratifica del Trattato e la nomina del Presidente saranno festeggiati come grandi eventi, quando invece è ben altro che si chiede all’Unione Europea. Una politica economica unitaria, capace di affrontare la crisi e soprattutto di determinare un nuovo sistema di regolamentazione del sistema finanziario e del mercato monetario che prevenga ulteriori future crisi; un protagonismo europeo nello scenario mediorientale e in generale nella politica per la pace; la costituzione di un vero e proprio Esercito europeo, professionalmente preparato in specie per le missioni di peacekeeping, senza di cui l’Unione Europea non sarà mai presa seriamente in considerazione come potenza politica globale: queste sono le attese fondamentali che finora i dirigenti europei hanno deluso.

Accanto a ciò, c’è il sempre maggiore disincanto e disinteresse dei cittadini, che, dopo la Moneta Unica e l’allargamento dell’Unione all’est europeo, vedono solo i svantaggi e non i benefici di scelte necessarie, ma che non sono state accompagnate da una crescita economica e del benessere. Al contrario, ciò che è accaduto è un progressivo svuotamento della sovranità democratica delle istituzioni nazionali, da un lato, e una crescente paralisi delle istituzioni europee. Infatti, poiché l’allargamento dell’Unione a 27 non è stato affiancato dalla necessaria riforma delle procedure decisionali, che solo in parte saranno migliorate dal Trattato, il risultato è che le istituzioni europee sono sempre meno in grado di dare risposte rapide ai problemi, ma soprattutto appaiono sempre più lontane dai cittadini e sempre meno trasparenti. Da ciò, non può che derivarne un sempre maggiore estraniamento dei cittadini dall’Europa e un rafforzamento dei poteri delle tecnocrazie burocratiche, ed in particolare della BCE, che, con le sue politiche ispirate prevalentemente al contenimento dell’inflazione, è una delle principali responsabili dei bassi tassi di crescita dei paesi europei.

La verità è che l’Unione Europea non farà nessun progresso finché non ci sarà una classe dirigente, in grado di assumere la sfida che può apparire utopica ma necessaria, di fare di essa una grande democrazia postnazionale. (Spesso con eccesso di retorica si dice la prima democrazia postnazionale, ma in realtà la prima realtà politica postnazionale della storia sono, di fatto, gli Stati Uniti d’America, ed è questo uno dei fattori che li rendono ancora forza egemonica in un mondo che va sempre più mettendo in crisi i fragili Stati nazionali.)
La stessa sinistra riformista europea non ha saputo in questi anni farsi carico di questa prospettiva, ed in ciò c’è la ragione della sua crisi attuale.

Molti, di recente, si sono chiesti il perché di fronte alla crisi economica mondiale, che ha messo radicalmente in discussione gli assiomi del pensiero liberista, si assista nei paesi europei ad una difficoltà drammatica dei progressisti (basta pensare alle ultime elezioni europee e al tracollo della SPD nelle elezioni politiche tedesche), che invece vincono in altre realtà, come il Giappone, l’Australia, oltre che in America. Di recente, in un articolo ferragostano su Il Messaggero, se l’era chiesto anche l’ex leader dell’Ulivo.La risposta di Prodi è un affondo alla Terza Via di Blair: la sinistra al governo negli anni novanta in quasi tutti i Paesi europei si è limitata a gestire le politiche neoconservatrici con qualche piccola modifica di "linguaggio" (mi sembra riduttivo pensare che le modifiche fossero solo di linguaggio, ma nella sostanza l'ex leader del centrosinistra dice il vero); è ciò oggi la renderebbe poco credibile. Prodi coglie un aspetto reale: la sostanziale subalternità del riformismo europeo degli anni novanta rispetto al cosiddetto Pensiero Unico. Un editorialista de Il Corriere della Sera ha obiettato che Prodi è stato uno dei più influenti capi di governo del centrosinistra europeo, e forse ha dimenticato le sue responsabilità. L'obiezione è giusta e non c'è dubbio che anche i governi italiani di centrosinistra hanno mostrato la stessa subalternità, dato che sempre nei momenti cruciali di scelta delle politiche economiche è sempre prevalsa l'impostazione monetarista (rappresentata nell'ultimo governo da Padoa Schioppa) su quella redistributiva e di interventismo nell'economia. Anche l'europeismo dell'Ulivo italiano è stato modellato su una idea prevalente di integrazione passiva del Paese, alla cui base c'era la convinzione che l'integrazione politica sarebbe stata conseguenza necessaria ed ineluttabile dell'integrazione monetaria ed economica, cosa che si è dimostrata illusoria, ed anche questa era una forma di subalternità del riformismo, nella sua versione italiana.
Ma il punto vero a mio avviso è che la critica di Prodi alla Terza Via coglie solo l'aspetto più superficiale. La domanda è: perché in America, dove pure c'è stata la stagione clintoniana, cui è rimproverabile la stessa subalternità al neoconservatorismo che si attribuisce al blairismo, dopo Bush e con la crisi nel suo culmine, c'è stata la vittoria di Obama? Perché la rivoluzione obamiana (massiccio intervento pubblico nell'economia, riconversione tecnologica e produttiva verso la green economy, ecc.) è credibile e vincente in America e non negli stati europei? Forse l'America, di cui ci siamo affrettati a teorizzare il declino, nonostante che questo sia relativamente vero, è ancora in grado di detenere l'iniziativa sul piano globale sul terreno economico, finanziario, tecnologico, politico, militare. L'America è tuttora una potenza, la più grande, che agisce da potenza globale. L'Europa no. La sua integrazione politica, infatti, è in ritardo drammatico. Da questo punto di vista, il vero errore tragico dei riformisti europei è aver consentito l'allargamento ad est senza aver prima risolto il nodo dell'integrazione politica, della scelta tra modello comunitario e modello intergovernativo, senza essersi dotati delle istituzioni adeguate a supportare l'allargamento, con il risultato che il secondo modello ormai prevale di fatto. In questo senso le responsabilità di Prodi, così come degli altri leader europei, sono maggiori di quelle di Blair, da cui certo non ci si poteva attendere la spinta maggiore sull'integrazione politica dell'Unione Europea, dati il noto orgoglio nazionale che deriva dalla tradizione imperiale e la storica resistenza inglese ad ogni cessione di sovranità.
La critica di Prodi non coglie che la Terza Via era la via inglese all'integrazione, ossia una via che non presupponeva l'unione politica europea ma una combinazione possibile dal punto di vista inglese tra vocazione atlantista e vocazione europea. La Terza Via ossia era la risposta dal punto di vista di un rinnovato asse America-Gran Bretagna alla sfida del capitalismo globale, che puntava ad attribuire a questo asse un ruolo egemonico. Le altre componenti del riformismo europeo non sono state in grado di porsi sul terreno di questa sfida. Non certo perché aderirono alla Terza Via (cosa che il socialismo europeo a stragrande maggioranza ha sempre rifiutato), ma perché non seppero elaborare un'alternativa a questo modello di integrazione, il che presupponeva la rinuncia ad ogni pregiudizio nazionale e la scelta netta dell'europeismo. Non aver costruito l'Europa politica è la vera spiegazione della mancanza di credibilità dei progressisti europei di fronte alla crisi mondiale, e del fatto che il nazionalismo populistico della destra europea in questa fase detenga l’egemonia.

Sempre Prodi, in un convegno su La Pira dello stesso periodo, ha attribuito agli inglesi la responsabilità di aver spinto con intelligenza e determinazione per un modello di integrazione politica debole, mentre gli europeisti sarebbero stati timidi e incerti. L'intelligenza degli inglesi, però, è stata proprio di consentire l'allargamento ad est senza che prima si fosse definita una costituzione politica, che avrebbe dovuto essere conseguenza immediata e necessaria dell'Euro e premessa dell'allargamento. La doppia velocità e il superamento del principio dell'unanimità, che ora Prodi e altri fautori dell'approccio comunitario sostengono, doveva essere introdotto da prima come "arma" di pressione. Ricordo che Bruno Trentin, allora parlamentare europeo, in un Seminario della Sinistra giovanile del 2000 da me organizzato, quando appena si cominciava a discutere di allargamento e non ancora c'era l'introduzione ufficiale dell'Euro, aveva già chiaro il problema e sosteneva già allora il sistema dell'Unione a velocità varabile. Per Prodi invece tutto si riduce ad un problema di timidezza e "flebilità di voce" degli europeisti, ossia riduce esattamente la questione europea ad una questione di retorica (in un passaggio del suo intervento, ha enfatizzato la necessità dell'inno e della bandiera europea, quasi tutto dipendesse da quello, così come sopravvaluta il fattore "psicologico" della moneta unica che ha preso il posto delle monete nazionali, come se bastasse a formare una coscienza europea; si visto che non è così). Invece, il superamento del principio dell'unanimità avrebbe dovuto essere uno strumento di battaglia politica da condurre in campo aperto, nel "popolo". In definitiva, il problema degli europeisti è di essere, per usare un'espressione di Reichlin che ha avuto successo, riformisti senza popolo, un'èlite priva di partito, dato che non esiste in Europa un partito coerentemente riformista, capace di muovere l'opinione pubblica.

Sono queste, in definitiva, le ragioni della crisi della socialdemocrazia in Europa, e non c’entra nulla la morte del socialismo, che i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei hanno da tempo abbandonato come dottrina.
Obama ha vinto in America perché le sue proposte erano credibili, perché l’America è in grado con la sua politica di determinare un vero cambiamento globale; i progressisti europei non sono credibili e non lo diventeranno finché saranno prigionieri delle divisioni nazionali: solo un’Europa unita è in grado di restituire respiro ad una politica di cambiamento nei paesi del Vecchio Continente. In sintesi, la crisi dell’Europa è la crisi della sinistra; sono due volti della stessa medaglia. Senza l’Europa unita, senza l’Europa attore politico globale, i progressisti europei non sono nella condizione di suscitare nessuna speranza di cambiamento analoga a quella che Obama ha suscitato negli States.

Tuttavia, non bisogna indugiare nel pessimismo. L’evoluzione dell’Unione Europea verso una vera e propria Federazione di Stati è nelle cose, una comunità di Stati che ha un unico mercato integrato e un’unica moneta prima o poi dovrà fare i conti con la necessità di una piena integrazione politica. La stessa creazione della figura del Presidente dell’Unione, insieme con quella dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera, per quanto non sia una soluzione sufficiente al problema dell’unificazione politica dell’Europa, sta ad indicare l’ineluttabilità della spinta federativa. Ciò non vuol dire che senza un’azione politica consapevole che faccia prevalere questa spinta, si arrivi senz’altro alla realizzazione dell’unità politica europea. L’obiettivo potrebbe anche essere fallito, e l’approdo sarebbe alla lunga la disgregazione e un’involuzione antidemocratica dell’Europa, con la crescita inesorabile dei nazionalismi e dei populismi.

Per rovesciare questa situazione, il nuovo raggruppamento dei socialisti democratici e dei progressisti ha una sola chance: fare propria la bandiera degli Stati Uniti d’Europa, proporre l’elezione diretta da parte dei cittadini, oltre che del Parlamento, anche del Presidente dell’Unione, liberando questa istituzione per sua natura federativa dall’involucro intergovernativo in cui è stata concepita, adottando progressivamente un modello costituzionale analogo all’americano, che del resto è l’unico possibile per una Federazione di Stati così diversificata e ampia come l’attuale Unione Europea. Apparentemente è un miraggio, in realtà è lo sbocco inevitabile di un processo di unificazione che rischia di essere affossato dalle estenuanti lungaggini delle diplomazie e dalle contorte trattative per la revisione di trattati, che sono approvati solo quando ormai appaiono già obsoleti. Far eleggere dai cittadini il Presidente dell’Unione Europea costituirebbe una potente accelerazione dell’integrazione politica, che d’un tratto si troverebbe ad essere da chimera una realtà ed un fatto.

Non si è mai vista, del resto, nella storia una forza progressista e di cambiamento che sia riuscita a vincere e a prevalere sulle forze conservatrici, senza animare una speranza, senza offrire a larghi strati di popolazione un fine per cui mobilitarsi. Proporre gli Stati Uniti d’Europa è oggi la sola parola d’ordine che può risvegliare dal torpore e dalle paure popolazioni, che oggi vedono con inquietudine il proprio futuro.

Lo scenario ad oggi, tuttavia, non è questo. Ciò cui assistiamo è invece un lento declino del Progetto Europeo, per mancanza di ambizione e di coraggio delle sue classi dirigenti. E questo ha conseguenze nefaste, soprattutto per l’Italia e per la sinistra italiana.

Il destino del nostro Paese, infatti, per la sua storia e la sua posizione geopolitica, è strettamente legato al futuro politico dell’unità europea. La principale ragione di ciò è nella fragilità dell’unità nazionale italiana. Non si è riflettuto mai abbastanza di come l’ingresso nel Sistema Monetario Europeo e poi nell’Euro abbia completamente spezzato il vecchio compromesso non solo tra capitalismo Stato e democrazia dei partiti che aveva retto la Prima Repubblica, ma anche lo stesso patto di unità nazionale tra Nord e Sud del Paese.
La mancata sostituzione con un nuovo patto di unità nazionale e un nuovo compromesso tra democrazia ed economia nel nostro Paese è alla radice dello stato di minorità delle forze democratiche e progressiste in Italia, ed il prevalere dell’asse berlusconiano-leghista, il quale a suo modo sta ridisegnando un nuovo compromesso, che prevede però l’andata in malora dell’unità nazionale.

Il centrosinistra si è illuso in questi anni che bastasse l’adesione alla Moneta Unica per trasformare in senso europeo l’Italia ed unirla. Al contrario, in mancanza di un progetto di integrazione attiva che portasse tutto il Paese nel contesto del mercato europeo integrato, rendendolo competitivo nella sua globalità, è prevalso il progetto antiunitario e disgregativo del leghismo, come si vede nel proliferare delle leghe, non solo quella di Bossi ma ora anche quelle meridionaliste, siciliane, etc. Ciò che si va realizzando è in poche parole un compromesso in cui le regioni del Nord si agganciano autonomamente e per conto proprio al mercato europeo, mentre quelle del sud continuano ad essere sostenute dalla spesa pubblica e dallo Stato, oltre che dall’economia criminale. Ed è questa la realtà di oggi del nostro Paese, che può essere cambiata solo da un centrosinistra che facesse dell’integrazione politica europea la propria parola d’ordine nazionale. Un’integrazione politica che deve però farsi carico del nuovo orizzonte Euro - Mediterraneo, della necessità di costruire un nuovo sistema di relazioni tra Europa Africa e Asia, che veda il Mezzogiorno come protagonista; tutto ciò comporta investimenti e politiche per lo sviluppo, la cui condizione essenziale è però la liberazione delle regioni meridionali dalla criminalità organizzata e dalla cattiva politica.

Il centrosinistra che ha governato l’Italia per diversi anni però non ha saputo realizzare le condizioni di questa integrale europeizzazione del Paese; la sua è stata una politica di integrazione meramente passiva, che non è riuscita a modificare nessuna delle tendenze disgregative in atto nel Paese, poiché nessuna delle riforme economiche e sociali che avrebbero potuto consentire un’integrazione attiva è stata portata a termine. Da ciò è nata, e non da altro, la sua sconfitta di fronte alla destra berlusconiana, antieuropea e antinazionale.

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