sabato 5 dicembre 2009

BREVE SAGGIO. QUARTA PARTE

LAICITA’, FEDE ED ETICA RAZIONALE

Legato al tema dell’identità e del nuovo pensiero, è quello del rapporto tra fede e laicità. Una questione essenziale per un partito di cattolici e non credenti, senza risolvere la quale è impossibile immaginare la costruzione di un’identità politica e culturale condivisa. Ed, infatti, le maggiori tensioni nei primi 18 mesi di vita del PD si sono verificate proprio su questo tema.
Dire fede religiosa in Italia vuol dire cattolicesimo, e cattolicesimo significa Vaticano, dato che come è noto la Chiesa Cattolica ha la sua capitale in Italia, dove risiede il Papa. Non debbo dilungarmi sul significato storico di questo dato, e sul condizionamento che la presenza del Papa ha sempre esercitato e tuttora esercita in Italia.

Inizialmente, i fondatori del Partito Democratico hanno pensato di poter risolvere la questione del rapporto tra laicità e fede religiosa nell’ambito dell’idea fragile e velleitaria del partito post - identitario, in cui ognuno fosse libero di esercitare un’appartenenza estranea e separata dall’appartenenza di partito. La libertà di coscienza sui temi eticamente sensibili sarebbe stato il criterio risolutivo per dirimere le controversie, insorgenti nel rapporto tra etica laica ed etica religiosa. Ben presto questo criterio si è rivelato illusorio.
In primo luogo, perché distinguere l’ambito delle questioni sensibili, su cui poter esercitare l’obiezione di coscienza da parte dei singoli rappresentanti elettivi del partito, da quello delle questioni non eticamente sensibili diventa un’impresa difficile. E soprattutto questo approccio si è dimostrato illusorio per una ragione di fondo: etica e politica, per quanto distinte, sono sfere dell’agire umano molto vicine tra loro; e la potenza della scienza e della tecnica oggi è tale da invadere sistematicamente il vissuto quotidiano delle persone, ponendoci continuamente questioni etiche relative alla sfera della vita e della morte, delle relazioni affettive, della cura di malattie considerate incurabili fino a qualche decennio fa, e così via.
Una politica, che rinunciasse ad intervenire nel campo della bioetica sarebbe una politica impotente e ridotta al silenzio, su questioni che invece interrogano e angosciano la gran parte delle persone in carne ed ossa.
Il dominio della scienza e della tecnica è uno dei connotati specifici dell’epoca in cui viviamo. Su questo ha scritto riflessioni approfondite uno dei nostri filosofi contemporanei più importanti, Emanuele Severino. Secondo Severino, il dominio della tecnica, e la perdita di senso della vita, che ne deriva (nichilismo) è una conseguenza dello sviluppo della civiltà occidentale, della concezione stessa che questa ha del mondo fin dalle sue origini, fondata com’è sull’idea del dominio della ragione umana sulle cose, sul divenire, sul continuo nascere e morire di tutto ciò che ci circonda. C’è del vero in questa analisi. Ma la scienza e la tecnica non sono l’unico fattore di sviluppo e di dominio della civiltà occidentale. Un altro fattore di eguale se non maggiore importanza, è l’asservimento dell’agire umano al profitto per il profitto, al dominio del mercato e della competizione individualistica. La tecnica, e con essa la scienza, diventano, nell’ambito di società orientate a tali valori, strumenti neutri, la cui efficienza è valutabile solo per la loro capacità di favorire il profitto e la mercificazione della vita. E’ questo che produce la perdita di senso, non il prevalere del metodo scientifico in quanto tale, le cui finalità sono comunque frutto di scelte umane. L’economia, o per essere più esatti, il mercato, questo mercato qui che conosciamo oggi, globalizzato, fuori dal controllo degli Stati e delle democrazie nazionali, in crisi di sovranità e di potere, questo mercato che si è impossessato della scienza e della tecnica, con le loro straordinarie potenzialità, asservendole ai propri fini.

La perdita di senso, quindi, è una realtà, non immodificabile come sembra lasciar pensare Severino (quasi che fosse un effetto ineluttabile della natura nichilista della cultura occidentale, fondata sul primato della scienza e della tecnica), ma è una realtà concreta e strettamente legata all’estraneazione, che ciascuno di noi vive di fronte a potenze che sfuggono completamente dal nostro controllo, ma che condizionano pesantemente la vita quotidiana di ciascuno: le potenze per l’appunto del mercato, del denaro, delle speculazioni finanziarie, della scienza, delle tecnocrazie sovranazionali senza controllo democratico. E se a questo si aggiunge la capacità mai raggiunta in precedenza dalla scienza di incidere sui confini stessi della vita umana, si capisce come esista una gigantesca domanda di senso, cui la politica impotente, ridotta a gestione dell’esistente, non riesce a rispondere.

Del resto, l’umanità ha assistito negli ultimi decenni del secolo scorso ad uno straordinario rovesciamento di prospettiva, che ha modificato in modo radicale il modo con cui noi abbiamo percepito e sentito il mondo nell’ultimo millennio: la crisi dell’idea stessa di progresso. A partire soprattutto dal Rinascimento, e poi grazie al progredire della scienza e alla svolta rappresentata dal Secolo dei Lumi, l’umanità per secoli ha creduto nella possibilità di un miglioramento progressivo delle condizioni di vita, di un avanzamento continuo ed ininterrotto della civiltà. Le scoperte scientifiche, i progressi della medicina, lo sviluppo delle tecnologie, le rivoluzioni sociali effettivamente hanno consentito in questi secoli di far progredire l’umanità, liberando masse crescenti di persone dalla fame, dalla malattia, dalla miseria. Oggi, però, per la prima volta l’umanità, anche nei paesi più civilizzati, comincia invece a pensare che il futuro che ci attende non sarà migliore del passato, ed anzi che nessuno possa escludere persino l’estinzione della specie umana, non per cause naturali, ma per autodistruzione.

La crisi dell’idea di progresso era già cominciata dopo la seconda guerra mondiale. L’Olocausto, lo sterminio sistematico di milioni di ebrei e di altri innocenti da parte dei nazisti, erano stati il triste presagio di come in realtà la scienza umana potesse essere messa al servizio del male anziché del bene, della morte anziché della vita, della distruzione anziché della creazione. L’invenzione dell’atomica come arma di distruzione di massa e di distruzione totale, era stata la drammatica conferma. Infine, l’esplodere recente della questione climatica e la prospettiva di distruggere le condizioni della sopravvivenza umana in pochi decenni, senza una profonda riconversione dell’economia e delle tecnologie, è stata la definitiva sanzione della perdita di fiducia dell’umanità nei propri mezzi, nella capacità della ragione di guidarci verso una vita migliore.
In mezzo c’è stato il crollo dell’utopia comunista, travolta dopo la caduta del muro di Berlino in quasi tutti i Paesi in cui si era affermata, dando vita a regimi oppressivi e autoritari, e con essa era sembrata entrare in crisi irreversibile l’idea stessa della politica come forza emancipatrice e di riscatto.

In questo contesto storico, non è affatto strano, anzi è facilmente spiegabile, come la religione sia tornata ad essere essenziale per milioni di esseri umani in tutto il mondo, ed anche in Occidente, colmando un vuoto abissale di senso e di riferimenti etici, che la politica non riesce o non vuole colmare, essendosi essa stessa ridotta a mera tecnica, e quindi a gestione del potere fine a se stessa.

Di fronte a tutto ciò, e alle inquietudini crescenti, che l’umanità si pone, e che nemmeno il ritorno alla spiritualità religiosa riesce del tutto a soddisfare, la politica ha due alternative: tornare ad un utilizzo strumentale della religione (o lasciarsi strumentalizzare dalla religione, che è sul piano pratico uguale), oppure provare in modo autonomo a dare risposte, diventando luogo dell’elaborazione di un’etica condivisa. La prima strada è quella che istintivamente intraprendono, e stanno già intraprendendo, le forze conservatrici e populiste, la seconda è quella che preferibilmente devono percorrere i democratici e i progressisti.
Ciò che non si può fare è astenersi dal confronto, non avere una propria visione, rinunciare a dare risposte. Ed esattamente ciò che ha fatto per lungo tempo il Partito Democratico italiano, più con Veltroni, che pure proveniva dalla tradizione di sinistra, che con il cattolico-democratico Franceschini (non si può non riconoscerlo). A differenza del PDL, che al contrario, nonostante i dissensi del Presidente della Camera Fini, ha sposato le tesi più oltranziste del Vaticano sulle questioni bioetiche, e costruito su questo una parte importante dei propri consensi nel mondo cattolico.

Franceschini, proprio perché cattolico, ha avuto maggiore libertà di Veltroni, in un partito ancora diviso in componenti culturalmente non comunicanti, a stabilire il principio che anche sulle questioni “eticamente sensibili” si esprimesse e decidesse a maggioranza.

Ciò tuttavia non è sufficiente ad evitare tensioni che, soprattutto se la leadership del partito tornasse nelle mani di un esponente della cultura laica di sinistra, si inasprirebbero in maniera pericolosa. A meno che il PD non sia in grado di elaborare una sintesi culturale nuova e condivisa, tra laici e cattolici, nel rapporto tra laicità ed etica religiosa. Una sintesi che tenga conto della storia italiana e della sua tradizione, con i suoi pregi e i suoi difetti.

Sono due i principali ostacoli sulla ricerca di questa sintesi: da un lato, lo scivolamento della Chiesa cattolica su posizioni sempre più integraliste e radicali, dall’altro l’appiattimento della cultura laica e di sinistra ad una visione di relativismo agnostico. L’una e l’altra visione, che attraversano il PD, costituiscono un serio impedimento all’elaborazione di una visione etica laica, che sappia tenere conto di ciò che di positivo è presente nell’etica religiosa, in particolare cristiana.
L’ostacolo più serio è però il secondo. Le posizioni integraliste in realtà hanno un seguito minoritario, seppure crescente nelle file della componente cattolica del partito, che perlopiù si colloca su una linea di laicità e di autonomia dalla Chiesa. Il vero disastro è l’atteggiamento relativista che prevale tra i laici di sinistra, che rende impossibile condurre una battaglia culturale a viso aperto nei confronti delle correnti più retrive del cattolicesimo.

Il punto di forza, infatti, del cattolicesimo più integrale sta nel rifiuto della cultura laica di confrontarsi seriamente con la questione etica, con la necessità che la società presente ha di ridefinire l’idea di ciò che è bene, l’idea stessa di verità. La cultura laica commette l’errore di ritenere che la rinuncia ad ogni assolutismo, all’idea di verità assolute, conduca alla rinuncia dell’idea stessa di verità e di bene. Con questo, accettando anche a sinistra una concezione nichilista, per cui solo l’individuo è misura per se stesso di ciò che è giusto o sbagliato. La parzialità delle idee di verità, che ciascuno di noi può mettere in campo, non può invece comportare l’abbandono della ricerca di visioni condivise del bene. La verità, ci insegna il pensiero contemporaneo più avanzato, è una costruzione dell’umanità, nel suo sforzo di interpretare e plasmare la realtà attraverso il linguaggio e l’agire sociale. Nondimeno, senza la costruzione di verità generalmente condivise, che per essere tali devono poter essere giudicate e verificate razionalmente mediante il dibattito democratico, l’umanità precipiterebbe nel caos e nell’anarchia. Che è ciò che purtroppo largamente accade del mondo. Del resto, dal punto di vista di un’etica laica razionale, che non rinuncia alla costruzione del bene, relativismo etico e integralismo sono tra loro alleati, perché il primo dichiara che tutte le verità sono egualmente false e vere, il secondo rivendica il diritto di imporre la propria verità, dato che anche l’imposizione di essa con la violenza finisce con l’essere in un mondo senza bene e senza verità un valore legittimamente perseguibile, alla pari di altri valori; entrambi, relativismo etico ed integralismo, alla fine negano la possibilità di costruire un’etica razionale condivisa, in cui tutte le diverse visioni etico-religiose possano convergere.

Il relativismo rappresenta, pertanto, un errore grave, oltre che una posizione antirazionale, che lascia libere praterie sconfinate a favore della destra conservatrice, che strumentalizza il richiamo ai valori tradizionali della religione cattolica. Ciò che è favorito, peraltro, dalla deriva attuale della Chiesa, che sempre più abbandona lo spirito conciliare e la sua vocazione universalistica, e sempre più si concepisce come minoranza, che cerca di massimizzare il suo potere di interdizione sulle questioni etiche che più le stanno a cuore. Un potere di interdizione che viene esercitato non solo su quei diritti di libertà, che entrano in contrasto con la sua predicazione, ma anche su concreti interessi materiali come i finanziamenti alle scuole private cattoliche.

Non è, quindi, affatto sufficiente l’impostazione di massima, che finora i dirigenti democratici hanno dato al problema della laicità, a partire dall’approccio della componente laica e di sinistra. L’idea che ci si possa limitare a dire che la Chiesa è libera di esprimere la propria opinione, purché non interferisca con la politica e con l’attività legislativa, è un approccio debole e perdente. La Chiesa è un soggetto politico, ed è chiaro che la sua predicazione inevitabilmente ha risvolti politici e finisce con condizionare anche le decisioni degli organi istituzionali. All’opposto, è sbagliato l’approccio di quei cattolici, che pensano che la propria funzione si riduca ad essere portavoce delle istanze delle gerarchie ecclesiastiche, e che contraddire i pronunciamenti della Chiesa sia automaticamente venire meno alla propria ispirazione cristiana. E’ un approccio che fa compiere al cattolicesimo democratico enormi passi indietro rispetto alla stessa tradizione democratico - cristiana, per la quale è sempre stato principio irrinunciabile che nell’attività politica e legislativa gli uomini politici rispondessero personalmente o collettivamente come partito alla propria coscienza di cristiani.

Il nuovo approccio possibile è accettare fino in fondo e senza remore la sfida etica che proviene dalla Chiesa e in generale dal mondo cattolico e cristiano. E farlo sulla base della ricerca di un’etica razionale condivisa, che assuma come valore la dimensione religiosa.

E’ possibile porre le basi di una simile etica condivisa? Questa è la domanda di fondo. La prima condizione è abbandonare ogni residuo relativista, ed assumere la necessità di un’etica orientata alla ricerca del bene comune, che non può pertanto fare a meno di un pensiero che cerca la verità, pur sapendo che essa non è mai assoluta ed autosufficiente. Questo significa rinunciare ad ogni pregiudizio ateo e ad ogni visione del mondo che supponga di poter fare a meno di una dimensione religiosa. Il riferimento di una rinnovata etica razionale, da questo punto di vista, continua ad essere il criticismo razionale di matrice kantiana, l’idea di una ragione che tutto sottopone a critica, compresa se stessa, anzi in primo luogo se stessa.

La ragione riconosce i propri limiti, e poiché essa è in grado di giudicare solo ciò che appartiene all’esperienza umana, che è limitata nello spazio e nel tempo (anzi spazio e tempo sono categorie prodotte dalla stessa mente umana per rendere possibile la comprensione della realtà da parte degli esseri umani), non è nelle disponibilità della specie umana, almeno allo stato attuale delle sue conoscenze, giudicare l’esistenza o meno di Dio, di un Essere Supremo trascendentale, che per definizione si pone oltre il tempo e lo spazio. Affermare l’esistenza di Dio o negarla sono giudizi egualmente non razionali, sono entrambi atti di fede su cui la ragione può interrogarsi, cercare indizi, ma mai giungere ad una verità definitiva. Ciò che invece sappiamo è che, senza una dimensione trascendente, non possiamo fondare nessuna etica, i principi morali vacillano, privi di ancoraggio. Se il destino finale di ciascun individuo è la morte, oltre cui non ci attende nulla, perché mai agire per il bene anziché per il male? Se non c’è salvezza perché vivere secondo giustizia? Rimane solo l’istinto della sopravvivenza, la volontà cieca di potenza e di sopraffazione del prossimo. Il discorso si farebbe lungo e complesso, ma per non allontanarci dal filo del nostro ragionamento, basterebbe fare questa osservazione.

Nel campo delle ideologie politiche, la religione è stata soppiantata da altre concezioni, non religiose, che hanno potuto far presa su larghe masse, a patto però di promettere in terra quella salvezza che la religione prometteva in cielo. Le utopie politiche, quelle di natura democratica e progressista, il socialismo, il comunismo, nelle loro varianti, però come abbiamo visto in precedenza sono fallite o in grave crisi. La crisi delle ideologie laiche, che sostituivano all’escatologia religiosa una salvezza terrena, ha ridato fiato e forza alle visioni religiose. Ciò dimostra che senza una prospettiva di salvezza, senza trascendenza, senza l’idea cioè di un mondo oltre quello esistente, dove i nostri sacrifici per il bene siano ricompensati, senza cioè che vi sia un fine che ciascuno di noi possa dare alla propria esistenza, non è possibile immaginare e costruire una visione etica della società. Affermare ciò non è un’ingenuità, nonostante che buona parte della modernità abbia rinunciato ad ogni idea di finalità nel mondo. D’altra parte lo stesso Nietzsche, secondo cui il mondo è privo di senso perché è un continuo ripetersi delle stesse vicende per l’eternità, però afferma che l’essere umano deve essere creatore di valori, trascendere se stesso. Il suo errore è aver concepito questa capacità creatrice dell’essere umano come legata esclusivamente ad una visione individualistica, egoistica, borghese. Nietzsche ha ragione, a voler andare nel profondo, quando afferma che la vita è volontà di potenza, ed è l’unica cosa che conta in un mondo che non ha alcun senso, se non quello che noi uomini gli attribuiamo. Ma l’unica volontà di potenza possibile è quella che ci fa appartenere all’umanità come specie, anzi come genere umano, è quella volontà di vita che ciascuno di noi afferma e sente più intensamente nell’unirsi ad un’altra persona, nel crescere i figli, nell’amore. Andare oltre il proprio ego, questa è la volontà di vita di cui l’umanità ha bisogno, quanto mai in un’epoca in cui rischiamo di autodistruggere noi stessi e il pianeta in cui viviamo, se non ci impegneremo ad andare oltre l’interesse immediato presente e a farci carico del bene delle generazioni future.
Andare oltre il proprio misero egoismo, vivere per gli altri, sentirsi parte di una comune radice umana. Questo è l’insegnamento che una moderna etica razionale deve apprendere dai messaggi delle grandi religioni monoteistiche. Dalle grandi utopie laiche, invece, bisogna apprendere il messaggio che un mondo migliore va cercato in primo luogo su questa terra e non in un'altra vita. Troppo a lungo, nei secoli, l’attesa della vita ultraterrena, in cui Dio avrebbe ripristinato la giustizia fra gli uomini, ha giustificato la sottomissione dei popoli, la prepotenza sui deboli, e l’oppressione da parte dei potenti.
In questo senso, non c’è dubbio che un ritorno ad una lettura autentica del messaggio di amore, fratellanza e giustizia contenuto nei Vangeli e nella religione cristiana è un aiuto fondamentale, per contrastare la barbarie di un mondo ingiusto, come quello che ci circonda.

Il ritorno al messaggio originario del cristianesimo ci è di aiuto, però, per un’altra ragione fondamentale, ossia per il suo contenuto antidogmatico e profondamente laico. Ciò che conta nel messaggio evangelico è l’amore verso i propri simili, il sacrificio per il prossimo e la salvezza del genere umano. E’ la fede verso Dio che si fa uomo e muore in croce per liberare l’umanità dal male del peccato. Questo è l’unico atto di fede che il cristianesimo autentico chiede, che è la prima ed unica fede religiosa ad umanizzare la divinità, e a fare dell’uomo il fine dell’uomo. “Il sabato è per il Figlio dell’uomo, non il Figlio dell’uomo per il sabato” ci dice il Vangelo, e il figlio dell’Uomo non è altro che l’umanità stessa che si incarna nel Cristo crocifisso. Quindi, per il cristianesimo autentico le istituzioni e i dogmi della religione, ma potremmo dire le stesse istituzioni del potere politico (che nella società dell’epoca si sovrapponevano alla religione) sono al servizio dell’umanità. E non a caso le pagine evangeliche sono piene di atti di ribellione verso le gerarchie e i dogmi, svuotati di ogni finalità umana e autenticamente spirituale, dagli apostoli che si nutrono nei giorni di digiuno e compiono opere di bene durante il Sabato fino alla cacciata dei mercanti del Tempio.

Nel cristianesimo originario, lungi dall’essere nemico della laicità, vi è al contrario la radice di ogni forma di umanesimo antidogmatico. Quindi, non solo il messaggio evangelico non è in contrasto con il liberalismo e con le società aperte, per usare un’espressione popperiana, ma anzi ne è una componente fondamentale, costitutiva. E’ certamente giusto dire che nessuna fede, purché vissuta con spirito di tolleranza e riconoscendo il pluralismo delle identità e il valore delle altrui fedi, non è incompatibile con la democrazia e con lo Stato laico. Non tutte le fedi però sono uguali, e non c’è dubbio che il cristianesimo, con l’idea di un Dio che si fa uomo, dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani in quanto figli di Dio, è stato decisivo per la nascita dell’individuo moderno, e non è un caso se le libertà individuali hanno trovato terreno fertile e si sono sviluppate nelle società occidentali, per poi estendersi progressivamente in altre civiltà, che però come vediamo fanno tuttora fatica ad accoglierle integralmente. Ciò non vuol dire che la fede cristiana sia l’unica via possibile per accedere all’idea di libertà e alla costruzione di società aperte; vuol dire però sicuramente che il riconoscimento della comune radice cristiana non è assolutamente un ostacolo in Occidente per il progresso delle libertà, ma anzi ne è un fattore decisivo. E’ grazie al cristianesimo che in Occidente è nata l’idea che ogni individuo risponde a Dio, e quindi al genere umano cui appartiene, delle proprie azioni nel bene e nel male, e senza tale fondamento non c’è libertà che tenga, c’è solo la negazione di qualsiasi responsabilità etica, senza di cui la libertà degenera in egoismo e individualismo sfrenato. Dunque, un’etica razionale laica non solo è compatibile con l’etica cristiana, ma non ne può fare a meno, ne ha un bisogno vitale.

Dunque, tornando al nostro Paese, non è il cristianesimo il problema. Cos’è allora che rende così difficile il rapporto tra laici e cattolici, credenti e non credenti in Italia, come in altre nazioni cattoliche? La risposta ci viene da un recente commento di Gustavo Zagrebelsky al libro intervista di Giovanna Casadio a Rosi Bindi, a proposito del rapporto tra cattolici e democrazia (La Repubblica, 6 ottobre 2009). Zagrebelsky sostiene che nessuna fede è inconciliabile con la democrazia (personalmente aggiungo, nessuna fede lo è meno del cristianesimo). Ciò che è inconciliabile è il principio di obbedienza alla Chiesa, e l’idea che sembra avvalorata dalla svolta ratzingeriana, secondo cui non obbedire alla gerarchia ecclesiastica, anche rispetto alle questioni relative alle scelte dei cattolici nella vita pubblica e in specie in quella politica, siano un atto di tradimento della fede. Zagrebelsky coglie il punto vero, e del resto è esattamente la ragione perché nella storia il cattolicesimo, nonostante il suo fondamento cristiano, è stato per molti secoli nemico della libertà. La contraddizione e la tensione tra il contenuto umano e morale del cristianesimo, che ha dato impulso alle spinte per l’affermazione della libertà, e la forma autoritaria della Chiesa, ha contrassegnato tutta la storia dei cattolici, ed è stato alla base dei movimenti ereticali e di quelli laici di riforma che l’hanno attraversata nei secoli, fino alla Riforma luterana e alla lacerazione della Chiesa cristiana, che ne è derivata. La Riforma ha messo in discussione il principio dell’autorità e dell’obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, stabilendo il principio che ciascun individuo risponde del proprio operato di fronte a Dio e alla propria coscienza, eliminando la funzione di mediazione della Chiesa. Il rapporto tra Dio e individuo diventa diretto, affermando così il primato della coscienza di ciascuno. L’affermazione e il diffondersi del protestantesimo è stata un potente impulso all’espansione delle libertà, accompagnando la nascita e lo sviluppo delle società borghesi, dei sistemi liberali e del capitalismo. Mentre la Chiesa cattolica ha continuato a considerarsi nemica delle democrazie e del liberalismo per molto tempo, fino al secolo scorso.

Il cattolicesimo, di fronte all’irrompere della società moderna, tuttavia, ha progressivamente dovuto adeguarsi.
Il modernismo, la rimozione del “non expedit” che impediva ai cattolici di partecipare alla vita politica, la nascita dei partiti democratico - cristiani hanno costituito il modo con cui i cattolici hanno potuto riconciliarsi con la moderna democrazia e con le società liberali, conquistandosi nell’arena pubblica quello spazio di autonomia che la Chiesa negava in generale agli individui nelle scelte etiche. Il partito di massa dei cattolici è stato per il nostro Paese, dove non c’è mai stata la Riforma ma solo la Controriforma cattolica con la sua presenza opprimente, ciò che il movimento luterano, calvinista, ecc., sono stati per altri Paesi europei, contribuendo ad affermare il primato della responsabilità individuale dei credenti, in relazione alla vita politica e sociale. Affermazione, che è entrata presto in conflitto con il permanere del principio di autorità della gerarchia ecclesiastica, come testimonia l’episodio delle minacciate dimissioni di De Gasperi, che nell’immediato dopoguerra si rifiutò di obbedire al Papa che voleva un’alleanza tra la DC e l’estrema destra in funzione anticomunista. Tuttavia, la forza, il radicamento e il largo consenso popolare del partito cattolico, grazie anche alla larga rete di associazioni e organizzazioni collaterali presenti nella società civile, sono stati nel corso della storia repubblicana un argine e una garanzia di autonomia efficace, fino a quando è durato. Venuta meno la DC, l’argine è crollato e si è riproposta la tensione per i cattolici impegnati nella vita pubblica tra libertà etica e obbedienza. La svolta conservatrice della Chiesa negli ultimi anni ha aggravato ulteriormente la situazione.

Del resto, la potenza della scienza, che ormai mette in condizione gli esseri umani di avere molte più possibilità di scelta sulla vita e la morte, mina alle fondamenta non l’etica cristiana in quanto tale, ma per l’appunto il principio di autorità della Chiesa, che per questo si sente minacciata nella sua stessa ragione di esistenza. E questo non fa che accrescere la contraddizione tra etica laica e autorità ecclesiastica. L’errore che una parte dei non credenti e i “laicisti” commettono è pensare che il conflitto sia tra etica laica e fede religiosa, mentre il conflitto è tra l’etica stessa, se l’etica è intesa come responsabilità degli individui verso se stessi e verso gli altri, e principio di autorità della Chiesa, che si sente messa in discussione.

Non c’è nessuna pagina evangelica, nessun contenuto della fede cristiana, che proibisca alle persone di scegliere liberamente sul proprio corpo e sulla propria vita, di adottare il testamento biologico, di ricorrere alla fecondazione assistita o alla pillola RU486, etc. L’unico limite che il cristianesimo pone è il rispetto della vita umana propria e altrui, ma la collocazione di tale limite non può essere stabilito una volta per tutte, ma solo caso per caso dalla coscienza individuale, perché il continuo progresso della scienza, a velocità in passato impensabili, rende peraltro impossibile stabilire una volta per sempre ed in modo dogmatico quali siano i confini invalicabili di ciò che è eticamente ammissibile. Questa è, tuttavia, per l’appunto la realtà che la Chiesa non vuole accogliere, perché non vuole accettare che siano gli individui a decidere; ciò mina, infatti, alla radice la sua autorità.

Eppure, per un’etica razionale, che tenga conto dell’ispirazione cristiana, riconciliare fede e scienza non è impossibile. La scienza moderna è potuta nascere in Occidente proprio perché c’è stato il cristianesimo, perché Cristo ha insegnato alla nostra civiltà ad avere fede nell’uomo, immagine di Dio, e nella sua possibilità di vincere il peccato, il male, e con esso la morte. Senza la novità sconvolgente, la buona novella, della Resurrezione, e ciò che essa ha prodotto nei secoli nel modo di pensare degli europei e degli occidentali, la scienza moderna non sarebbe mai arrivata ad osare ciò che ha osato in questi secoli, fino ad arrivare a scoprire e dominare l’origine stessa della vita. Se ciò è accaduto qui da noi, nel modernissimo Occidente, è proprio perché siamo dentro la civiltà cristiana, la civiltà che più di tutte ha esaltato la volontà di potenza del genere umano, come genere capace di dominare la natura, la vita e la morte. E’ una verità che sconvolge, cui la Chiesa non riesce ancora ad adattarsi, ma che prima o poi dovrà accettare. Da qui, nasce il conflitto non tra scienza ed etica, non tra scienza e fede, ma tra scienza e principio di autorità, tra etica e obbedienza.

Non voglio sostenere che senza la Chiesa vivremmo in una società migliore; la Chiesa cattolica svolge una funzione morale fondamentale per la coesione sociale, per mantenere e ricreare il senso della comunità tra le persone, e come tutte le strutture politiche essa deve avere una sua gerarchia e una sua disciplina. Nelle nazioni in cui la sua influenza è minore, esistono sì società più aperte e dinamiche, ma anche più attraversate dall’individualismo esasperato, lacerate, frantumate; la Chiesa cattolica dove è forte la sua presenza svolge una funzione di contenimento delle spinte disgregative delle famiglie e delle comunità, che sarebbe sciocco ignorare.
E del resto essa ha anche saputo nei decenni più recenti evolvere ed adeguarsi; il Concilio Vaticano II aveva saputo recepire molte innovazioni e trasformazioni che si erano prodotte nel seno della comunità cristiana di matrice cattolica, riconoscendo ai cattolici laici un ampio spazio di autonomia nella sfera pubblica. La recente involuzione conservatrice della Chiesa ha portato ad un ridimensionamento di questa autonomia; minacciata anch’essa nelle sue fondamenta dalla società globalizzata e dalla sempre maggiore accresciuta potenza della scienza e della tecnica, come ho già evidenziato, essa ha reagito serrando i ranghi e pretendendo un’adesione indiscussa alla sua dottrina, soprattutto nel campo della bioetica dove il contrasto tra libertà di scelta degli individui e autorità religiosa diventa più acuto.

E ciò nel nostro Paese, per la sua storia e tradizione, ha risvolti politici assai più drammatici che in altre nazioni occidentali.

Senza più l’argine della Democrazia Cristiana, lo Stato laico sembra scosso dalla continua tentazione della Chiesa di intervenire direttamente nella vita pubblica, orfana della mediazione del partito cattolico. I piccoli partiti di ispirazione cattolica, come l’UDC, sono ridotti a megafoni ininfluenti della voce vaticana, e sull’uso strumentale della religione da parte della destra mi sono già soffermato.

La via per i cattolici democratici del recupero dell’autonomia politica è la costruzione di un partito non più confessionale, di laici e cattolici professanti, di credenti e non credenti. Il ritorno all’unità dei cattolici è una via preclusa, che appartiene ad un’altra fase storica, non più riproponibile. Il Partito Democratico è il tentativo più avanzato, mai fatto nella storia del nostro Paese, di abbattere il muro tra “guelfi e ghibellini”, che ha contrassegnato la storia italiana. La costruzione di un’etica laica condivisa è la condizione del successo di questo tentativo. I laici di sinistra, per riuscirci, devono rinunciare ad ogni relativismo agnostico, e riconoscere l’imprescindibilità della dimensione trascendente e religiosa, come fondamento di un’etica razionale. I cattolici da parte loro devono abbandonare definitivamente ogni principio di obbedienza e diventare fino in fondo, per usare un’espressione famosa di Romano Prodi, “cattolici adulti”.

Solo così la sintesi tra laici di sinistra e cattolici sarà possibile all’interno dello stesso partito. Una sintesi tra agnostici e cattolici obbedienti è assolutamente impraticabile, per non dire impossibile, non porterebbe ad alcuna conclusione credibile. L’unica sintesi possibile sarebbe quella di dire, ognuno la pensi come vuole e la Chiesa sia libera di dire ciò che gli aggrada, poi noi ci regoleremo ognuno per conto proprio. Ed è quello che è successo finora nel PD, con tutte le conseguenze del caso e le fibrillazioni che ne sono scaturite. Ciò che invece è praticabile è la sintesi tra laici non credenti, la cui ricerca sia orientata al vero e al bene, non separata dalla dimensione trascendente, sia essa pure costituita dalla fede nell’umanità, e laici cattolici non obbedienti, ossia che rivendicano e praticano la propria autonomia politica dai dettami della Chiesa.
Da questo punto di vista, l’appello di Ratzinger ai non credenti a vivere come se Dio esistesse, è un invito da accogliere perché razionalmente fondato, come sostiene anche la Bindi nel suo libro-intervista. Senza un riferimento trascendente si piomba solo nel cinismo e nell’indifferenza. A tale appello dovrebbe però corrispondere, una volta accolto, un contro invito da parte dei laici non credenti ai credenti a vivere, nella vita politica e sociale, come se non ci fosse un vincolo di obbedienza all’autorità religiosa.

Certo, l’Italia non è la Germania, né l’Olanda, e neppure la Francia e la Spagna, e quindi non si potrà mai prescindere, almeno per i prossimi secoli, dalla presenza della Chiesa cattolica e dal suo ruolo anche come soggetto politico. Un partito laico di credenti e non credenti, che si base su un’etica razionale condivisa, può tuttavia ricreare un argine all’invadenza della Chiesa nella sfera pubblica, che nella prima repubblica era stato rappresentato dal partito dei cattolici democratici. Un tale partito potrà e dovrà aspirare ad essere il partito maggioritario tra i cattolici. Il rapporto tra Stato e Chiesa tornerà ad essere a quel punto una questione di diplomazia, così come lo è stato nei 50 anni di egemonia democristiana. Il Partito Democratico dovrà ricercare un dialogo con la Chiesa - i compromessi saranno necessari, salvaguardando le libertà civili e la laicità dello Stato - e lo potrà fare su un piano di parità e di rispetto reciproco.

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